21 Apr DOMENICA 24 APRILE 2022
SECONDA DOMENICA DI PASQUA
Giovanni 20,19-31
L’Uomo di Nazareth non si lascia rinchiudere: né dai legami familiari, né dal suo gruppo di discepoli, né dalla Legge, né dalle rappresentazioni che ci si fa di lui, ne dalla morte. Non è rimasto prigioniero della tomba. Risorto dai morti, Gesù è vivo per sempre. La vita di Dio risplende in lui. L’alba della resurrezione non conoscerà tramonto. La Pasqua è il passaggio dalla
morte alla vita. La morte non ha l’ultima parola. “Sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i nostri fratelli. Chi non ama, resta nella morte” (1 Gv 3,14).
Qualunque siano le situazioni in cui ci troviamo, la Pasqua apre un passaggio là dove i nostri occhi vedono solo muri. L’ostacolo diventa un passaggio per attraversare la notte fino al giorno. Le prove possono diventare luoghi sorgivi. La Pasqua ci ha resi persone di passaggio. Mai arrivati, mai installati, ma felici di essere vivi oggi. Vivi prima della morte. Perché la vita è fragile. Possiamo perderla quando meno ce lo aspettiamo. Amiamo la vita, l’amicizia, l’incontro, la condivisione. Prendiamoci cura dell’umano, in ogni circostanza.
Pasqua è sempre la vita che vince.
L’evangelista annota che le porte del luogo dove si trovavano i discepoli erano «chiuse per paura dei giudei». La paura è un sentimento che il lettore del quarto Vangelo conosce bene. C’è la paura della folla che non osa parlare in pubblico di Gesù (7,13), la paura dei genitori del cieco guarito che temono le reazioni delle autorità (9,22), la paura di alcuni notabili che non hanno il coraggio di dichiararsi nel timore di essere espulsi dalla sinagoga(12,42). Naturalmente la paura proviene dall’esterno, ma se può entrare nel cuore dell’uomo è unicamente perché vi trova un punto d’appoggio. Non serve chiudere le porte. La paura entra nel profondo se si è ricattabili, se qualcosa importa più di Gesù. E questo qualcosa può essere la vita, anche se, più spesso, si ha paura per molto meno. Ma ora che il Signore è risorto non c’è più ragione di avere alcuna paura. Persino la morte è vinta. «Pace a voi» dice il Signore. Si tratta di una pace che Gesù ha già promesso nei discorsi di testamento: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come il mondo la dà» (14,27). La pace di cui parla Gesù è diversa dalla pace del mondo. Diversa perché dono di Dio. Diversa, perché va alla radice, là dove l’uomo decide la scelta della menzogna o della verità. Diversa perché è una pace che sa pagare il prezzo della verità. Diversa perché non promette di eliminare la Croce – né nella vita del cristiano, né nella storia del mondo – ma rende certi della sua vittoria. I discepoli «si rallegrarono al vedere il Signore». Anche la gioia è un dono che Gesù ha già promesso (15,11). Si tratta sempre di una gioia che affonda le sue radici nell’amore, «rimanete nel mio amore». Come la pace, anche la gioia non sta nell’assenza della Croce, ma nel comprendere che il Crocifisso è risorto. La fede permette una diversa lettura della Croce e del dramma dell’uomo: non un dolore sterile, ma il dolore che conduce a una vita. Pace e gioia sono al tempo stesso i doni del Risorto e le tracce per riconoscerlo. Ma si deve infrangere l’attaccamento a se stessi. Solo così non si è più ricattabili, perché liberati da ogni paura. La pace e la gioia fioriscono nella libertà e nel dono di sé, due condizioni senza le quali diverrebbe impossibile ogni esperienza della presenza del Risorto.
Lo Spirito è dato per la remissione dei peccati (Gv 20,23): la Chiesa è abilitata ad aiutare uomini e donne a liberarsi da ogni ostacolo che possa frapporsi all’incontro con Dio. La Chiesa è anche una garanzia che ognuno di noi non cammina da solo, rischiando di smarrirsi. Ma insieme, in comunità, è difficile sbagliare perché lo Spirito ci verifica con il discernimento reciproco e la correzione fraterna, come esige lo stesso Signore nel 4° discorso del vangelo di Matteo, quello sulla comunità ecclesiale. Perdonare i peccati significa che nella Chiesa ognuno deve farsi carico dell’altro, ovvero bisogna farsi carico gli uni degli altri, come insegna l’apostolo Paolo: «Portate i pesi gli uni degli altri: così adempirete la legge di Cristo» (Gal 6,2).
«Mio Signore e mio Dio!». È la conclusione finale: un’esplosione di fede carica di sentimento e di abbandono confuso per avere dubitato della sua Parola. Possa questa invocazione di Tommaso diventare anche la nostra professione di fede quotidiana, specialmente quando abbiamo paura, quando siamo stanchi, quando la pesantezza della vita sembra sovrastarci, quando crediamo di non farcela e quando siamo tentati di credere che il Signore sia assente. Allora e sempre ricordiamoci di Tommaso e invochiamo con lui: «Mio Signore e mio Dio! perché il Signore non permette mai che possiamo essere sovrastati e schiacciati dalla sofferenza, dalla tristezza e dall’angoscia.