03 Set ABRAM USCì CON LORO DA UR – GENESI 11, 27-31
La genealogia di Abramo conclude la prima grande sezione della Genesi dedicata all’umanità in generale e apre quella dell’elezione di Israele nel concerto dei popoli della terra.
Già nel c. 10 la Tradizione Sacerdotale aveva disegnato una mappa multicolore delle razze umane discendenti da Noè, l’uomo «nuovo» che aveva inaugurato l’aurora di una nuova storia.
Si ha, quindi, un filo ideale che percorre tutte le generazioni umane e delinea il progetto di salvezza messo in azione da Dio all’interno del tempo e dello spazio.
Il fluire delle generazioni è talora visto dalla Bibbia con una tonalità pessimistica: è la rappresentazione della fragilità della creatura che è «come l’erba che germoglia al mattino: al mattino fiorisce, germoglia, alla sera è falciata e dissecca… Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti ma quasi tutti sono fatica, dolore; passano presto e noi ci dileguiamo» (Sai 90, 5-6.10).
E un’idea che certamente è da riproporre davanti ai nostri occhi, spesso offuscati dalle cose e dalla loro bellezza, dai corpi e dalla loro perfezione, dal tempo scambiato quasi per eternità. Qohelet con la sua capacità di smitizzazione ci ripete che «una generazione va e una generazione viene mentre la terra rimane sempre la stessa» (1, 4).
E a lui fa eco il Siracide con un’intensa immagine vegetale che rimanda quasi a certi folgoranti paragoni omerici che raffiguravano gli uomini come foglie che marciscono ai piedi dell’albero: «Come foglie verdi su un albero frondoso: le une lascia cadere, altre ne fa spuntare, lo stesso avviene per le generazioni di carne e di sangue: le une muoiono, altre ne nascono» (14, 18). Ma non è questo il tema su cui la Genesi qui ci invita a riflettere.
Infatti, quanto per noi le genealogie sono pagine malinconiche o aride, simili a un catalogo di trapassati, monotonamente scandito dai vari nomi, tanto invece erano care e trasparenti al lettore antico della Bibbia.
Quei nomi facevano balenare storie sacre, disegnavano una corrente di vita e di salvezza entro cui ci si sentiva inseriti.
Erano la proposta rigorosa (le genealogie, anche se spesso più simboliche che storiche, come nel caso di quella di Gesti presentata in Mt 1 e Lc 3, avevano valore giuridico e sociale) di una traiettoria salvifica.
Erano la descrizione delle radici di quell’albero a cui si attingeva linfa nel presente. Erano la sorgente di tutti quei doni, di quell’«eredità» che si era ricevuta attraverso le varie tappe della storia della salvezza.
In questa luce possiamo interpellare la pagina di Gn 1 a prima vista fredda e costellata di nomi esotici, come un invito a ritrovare le radici storiche e spirituali della nostra fede.
E’ un appello ad accogliere la tradizione viva, quella che giungerà a noi attraverso tutto l’itinerario d’Israele, del Cristo e della Chiesa.
Lungi dall’essere una rigida codificazione di norme e di comportamenti o una mera sequenza di personaggi o una gelida imposizione di dottrine, come conservatori e fondamentalisti vorrebbero, la tradizione autentica è la coscienza di essere parte di un corpo che cresce, è la certezza di essere all’interno di un disegno che Dio distende nel tempo e nello spazio.
L’insegnamento della tradizione non è un’incrostazione che soffoca la forza primordiale della parola di Dio. Parafrasando una frase con cui la spiritualità orienta le definisce la Filocalía, il testo classico della teologia spirituale d’Oriente, possiamo dire che la parola di Dio è il sole e la tradizione ne rappresenta i raggi che si effondono su di noi, ci avvolgono, ci penetrano, ci riscaldano.
La genealogia di Abramo ha alle spalle altri anelli numerosi, elencati nel citato c. 10 e in 11, 10-26. E la testimonianza di una lenta progressività prima che la meta sia raggiunta. Il Nuovo Testamento parla di«pienezza dei tempi»:
è necessario che il flusso dei tempi segua il corso progettato da Dio. Sono comprese svolte, cadute, degenerazioni: nei primi capitoli della Genesi quante maledizioni e quanti delitti s’annidano prima che appaia la luce di Noè e la benedizione di Abramo.
E’, quindi, indispensabile seguire i ritmi di Dio, le cui vie non sono le nostre, i cui progetti travalicano le nostre programmazioni e le nostre frette o paure. La virtù fondamentale del credente che cammina nelle generazioni storiche è la speranza.
D’altronde, come scriveva Lutero, «la speranza è dappertutto, e tutto quello che si fa nel mondo viene fatto nel nome della speranza: nessun contadino seminerebbe un solo chicco di grano, senza la speranza di un abbondante raccolto».
Un filosofo ateo ma in ricerca come Ernst Bloch (1885-1977) aveva giustamente affermato che «là dove c’è speranza, là c’è sempre religione».
Ed alla fine, ecco per chi ha atteso e sperato, la sorpresa. Da quei nomi oscuri e senza grandezza elencati nelle pagine precedenti della Genesi brilla la stella di Abramo.
La storia quotidiana e modesta, fatta di ore e giorni monotoni, di eventi spesso vuoti, di atti che si dissolvono nel nulla, di cose che sembrano solo foglie galleggianti sulla palude del ricordo, del passato e del silenzio, diventa il grembo fecondo che genera il figlio della promessa, in attesa di generare il figlio della realtà divina.
Gli anni dell’attesa, della preparazione, del silenzio non sono mai inutili, anzi sono quelli che permettono l’esplosione della sorpresa, l’epifania della rivelazione e della luce di Dio.
Il cammino senza consolazioni di molti anni, il percorso accidentato che Abramo dovrà compiere lasciando alle spalle la sua splendida patria, Ur dei Caldei, non approdano nel nulla. La speranza finisce solo con l’incontro, l’attesa è sigillata dall’appuntamento, il silenzio è infranto dalla parola di Dio che, proprio in apertura alla seconda parte del libro della Genesi, risuonerà squillante: «Farò di te un grande popolo e ti benedirò» (12, 2). La grande meditazione della lettera agli Ebrei commenterà: «Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. Per fede soggiornò nel la terra promessa come in una regione straniera… Egli aspettava, infatti, la città dalle salde fondamenta, il cui architetto costruttore è Dio stesso» (11, 8-10).
A questa visione della speranza biblica affidata ai tempi e ai momenti di Dio possiamo aggiungere un corollario.
La genealogia abramitica, come tutte le genealogie disseminate nella Genesi dalla Tradizione Sacerdotale, ci ammonisce che
è all’interno dell’esistenza che bisogna cercare i segni dell’azione divina. La speranza si radica nel quotidiano, la parola di Dio si riveste di parole umane, le generazioni dell’uomo corrono fino a «Gesù chiamato Cristo», figlio dell’Uomo e Figlio di Dio.
E’, quindi, in noi stessi che dobbiamo cercare lo svelarsi di Dio, non in cieli dorati e remoti.
Non cercare fuori di te il profumo di Dio. Non cessare di cercarlo entro di te, e vedrai che lo troverai».
Riflessione conclusiva.
Come abbiamo visto, nella Genesi la storia di Abramo è situata su uno sfondo cupo, da cui ci si aspetterebbe, invece di una promessa benevola, l’irrompere dell’ira di un Dio offeso. Il racconto della vocazione di Abramo (Gn I 2) segue immediatamente quello della costruzione della torre di Babele (Gn 11), che segna il punto culmine del susseguirsi di peccati.
Nonostante il grande amore di Dio l’uomo gli volta le spalle e si allontana da Lui. Attraverso una serie di eventi il male cresce e dilaga fino a delinearsi in dimensione universale.
Dal peccato di Adamo ed Eva al fratricidio di Caino, alla violenza di Lamech, alla malvagità irrefrenabile della generazione di Noè e all’orgoglio sfacciato dei costruttori della torre di Babele, gli anelli della catena del male s’infittiscono e diventano sempre più robusti. Dio, pur castigando, ha dei gesti di tenerezza sorprendente: le tuniche di pelli con cui egli riveste Adamo e Eva (3,21), il segno di protezione imposto a Caino (4,15), l’arca di Noè (6,l4ss) e l’arcobaleno (9,12-17).
Sono tutte espressioni di un amore sovrabbondante, esagerato rispetto alle misure umane; sono garanzie sicure che il creato può ancora avere un futuro bello, testimonianze incontestabili che tra delitto e castigo non c’è pura e semplice simmetria.
Paolo dirà: «Dove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia» (Rm 5,20).
Dopo il peccato dei progenitori Dio accende la loro speranza con la grande promessa di un salvatore (Gn 3,15). Come un padre o una madre fa con i propri figli, egli li veste prima di lasciarli partire dal paradiso terrestre (3,21). Quando Caino, col suo fratricidio, ha imbevuto il suolo col sangue del fratello e si è alienato dalla terra e dalla comunità umana, Dio non lo fa morire, anzi lo protegge (4,15).
Nel caos del diluvio, provocato dalla malvagità umana, Dio apre uno spiraglio di pace attraverso l’arca di Noè come luogo di salvezza per il creato (cc. 6-7).
Con la costruzione della torre di Babele sembra che la rottura tra uomo e Dio e la perdita dell’unità dell’umanità siano ormai definitive, ma non è questa la fine della storia.
Tra i costruttori della torre di Babele c’è il clan di Terach, da cui Jahwè chiamerà Abramo come colui nel quale saranno benedette tutte le genti (12,3). «I doni di Dio sono irrevocabili» (Rm 11,29), è ancora Paolo che parla. La sovrabbondanza di grazie dimostra che l’amore di Dio è più forte del peccato dell’uomo. Nessuno, per malvagio che sia, è capace di trasformare il mondo buono e bello di Dio in un mondo perduto. Il peccato, per quanto grande e devastante, non è in grado di ostacolare il piano di un Dio «amante della vita» (Sap 11,26).
Tra il racconto della torre di Babele e quello della chiamata di Abramo ci sono degli elementi in chiara contrapposizione. Gli uomini prendono l’iniziativa dicendo l’un l’altro: «Venite, facciamo mattoni. . .»; «Venite, costruiamo una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo» (Gn 11,3), mentre Dio dice ad Abramo: «Vàttene … verso il paese che io ti indicherò» (12,1).
Il motivo della costruzione della torre è: «facciamoci un nome per non disperderci su tutta la terra» (11,3), quello che Dio presenta ad Abramo è invece: «renderò grande il tuo nome, […Il in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (12,2-3).
La conclusione dell’episodio di Babele è: «il Signore disperse gli uomini su tutta la terra» (11,9), al contrario, quello della chiamata di Abramo: «in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (12,3).
Gli uomini della torre di Babele si sentono autosufficienti, capaci di costruire la città con i mattoni fabbricati da loro, credono di poter superare la natura creata da Dio con la loro tecnica e la loro ingegneria, pensano di poter arrivare al cielo con i loro mezzi.
La voce alla quale essi obbediscono è ancora quella del serpente ai loro progenitori: «diventerete come Dio» (Gn 3,5).
C’è un contrasto tra questo atteggiamento orgoglioso di fronte a Dio e quello umile e filiale insegnato da Gesù nella preghiera del Padre Nostro.
Osiamo chiamare Dio «Padre nostro» solo per mezzo di Gesù, ma non dobbiamo dimenticare che il Padre è «nei cieli», la sua tenerezza paterna e la sua prossimità non annullano la sua trascendenza e la sua incomparabile grandezza. «Dio è in cielo e tu sei sulla terra», ricorda il Qoèlet (Qo 5,2).
Dobbiamo invocare «sia santificato il tuo nome» anziché cercare di «farci un nome» e attendere perché «venga il tuo regno», anziché tentare di invadere la sfera divina con le nostre torri inconsistenti e ridicole; vogliamo che «sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra», anziclu~ obbligare Dio ad entrare nei nostri schemi. Il progetto della torre di Babele rappresenta una cittadinanza pretesa, destinata a fallire con la conseguenza della dispersione dei suoi cittadini. Dio vuole invece un altro tipo di cittadinanza, una cittadinanza ricevuta come dono.