Guariento Mario | IL RACCONTO DELLA CADUTA – GENESI 3
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IL RACCONTO DELLA CADUTA – GENESI 3

07 Set IL RACCONTO DELLA CADUTA – GENESI 3

IL RACCONTO DELLA CADUTA – GENESI 3

Se il fatto che Dio sapeva che l’uomo sa­rebbe diventato malvagio fosse stato un im­pedimento alla sua creazione, allora Dio avrebbe dichiarato che il male era più forte del suo amore.

Giovanni Damasceno

La narrazione di Gen 2 costituisce lo sfondo su cui si staglia il dramma dell’uomo.
Entra dunque in gioco l’uomo, l’umanità rappresentata in Adamo ed Eva, e in loro ciascuno deve saper riconoscere se stesso.
In Gen 3 si af­ferma l’originario più profondo e il testo ha una portata universale:
vi è rappresentato il dramma dell’uomo, della storia, il dramma di ogni uomo, il mio dramma. Qui ciascuno deve saper ricono­scere se stesso in Adam e vedere la propria vicenda altrimenti questa pagina serve solo all’infernale gioco dello scaricamento della colpa su Adam.

L’uomo è preceduto e investito dal male. Questa è una verità di cui cia­scuno di noi fa l’esperienza. Ogni uomo che nasce entra in un mondo in cui il male è già presente e che arriva a sedurlo e a dominano. Nella nostra vita spirituale noi constatiamo che il pec­cato ci abita, che noi facciamo il male, che il male in noi cresce, ci seduce, ci domina, ci assoggetta… ma non sappiamo qual è il nostro “primo peccato”, non sappiamo come il male è sorto in noi…

L’uomo non inizia il male in senso assoluto, ma ogni uomo è sedotto da esso e cede ad esso facendosi suo servitore. Il male è narrato, è descritto, ma non spiegato. Come l’uomo viene do­po la creazione (non l’ha vista), così viene dopo il male (non ne sa l’origine): per i rabbini questo significa che il come della crea­zione e l’origine del male sono argomenti interdetti all’indagine dell’uomo.

E soprattutto anche in questa pagina sono sempre presenti la promessa e la benedizione di Dio sull’uomo.
La narrazione della caduta‑peccato dell’uomo occupa tutto il capi­tolo 3 del libro della Genesi.

Per una retta interpretazione del testo bi­sogna ricordare prima di tutto che ci troviamo davanti a un “racconto di origine“, pertanto è importante prendere in considerazione il suo gene­re letterario di carattere mitico e non proiettare su di esso problemati­che teologiche posteriori.

Se Gn 2 risponde alla domanda di chi è l’uo­mo e come egli si mette in rapporto con il mondo, con gli altri e con Dio, Gen. 3 risponde alla domanda sull’esperienza del male, la sua causa, la sua dinamica e le sue conseguenze nella vita degli uomini.

Il racconto è stato costruito con squisita arte drammatica e si può dividere facil­mente in quattro scene:
la tentazione (3, 1‑7)
l’inchiesta (3, 8‑13)
il giu­dizio (3, 14‑19)
l’espulsione (3, 20‑24)

La stessa struttura del testo lo fa apparire non come cronaca di un fatto preciso, ma piuttosto come una sorta di “processo giudiziario”, di cui è possibile stabilire le di­verse tappe (il reato, l’inchiesta e il verdetto), o come una specie di rap­presentazione teatrale che descrive il dramma della rottura tra l’uomo e il Signore.

Gn 3, inoltre, non deve essere isolato dal racconto di Gn 2, 4b‑25, giacché i due capitoli formano un solo insieme letterario e teologico, che risponde allo schema normalmente utilizzato per descrivere l’alleanza.

In primo luogo troviamo l’iniziativa di Dio che sceglie un popolo e lo in­troduce nella Terra promessa, così come crea l’uomo e lo “colloca” nel giardino (Gn 2, 15).
Dio dà all’uomo un compito: servire il Signore (in ebraico: `abad) e osservare i suoi comandamenti (in ebraico: samar), che sono gli stessi verbi utilizzati per descrivere il compito dell’uomo: “lavo­rare e custodire il giardino” (Gen. 2, 15).

Il Signore dà all’uomo i coman­damenti dell’alleanza dopo l’esperienza gratuita della liberazione dall’E­gitto; anche in Genesi, il precetto (2, 17) viene dopo la consegna di tut­ti gli alberi del giardino (2, 16). Prima del comando c’è la libertà.

L’uo­mo però infrange l’alleanza: durante il cammino nel deserto il popolo eletto mette in dubbio il dono della liberazione tante volte (Es 16, 22-­27; 17, 1‑7; Nm 11, 4‑6), in Gen 3 il serpente mette in dubbio il proget­to divino di vita e di libertà in favore dell’uomo (Gen 3, 1.4‑5).

Nella sto­ria di Israele, dopo la rottura dell’alleanza, il Signore cerca l’uomo, lo accusa e fa una requisitoria contro di lui a causa dei suoi misfatti (Is 1, 2‑9; Ger 2; Sal 50; ecc.), lo condanna e gli fa subire il castigo (Dt 28), che tuttavia non è mai definitivo né totale.
Dio lascia sempre al po­polo la speranza del perdono e del ritorno a Lui (Dt 29‑30).

Così Gen 3 fa seguire al misfatto l’indagine, il verdetto e la condanna, ma lasciando sempre aperto un orizzonte di speranza e di misericordia.

Ci sono anche differenze importanti tra Gen 2, 4b‑25 e Gen 3.

In Gen 2, 4b‑25 il grande protagonista era Dio (l’uomo arriva a parlare e a dire qualcosa soltanto alla fine del capitolo); in Gen 3 sono l’uomo e la don­na a gestire la realtà e ad entrare in rapporto con l’universo che li cir­conda (Dio appare come protagonista secondario e interviene solo po­steriormente nel dramma).

Se Gen 2, 4b‑25 parlava della dipendenza ra­dicale dell’uomo e della donna da Dio, dal quale ricevono il nutrimen­to, il compito di lavorare e conservare il giardino, e il comandamento per salvaguardare la vita; in Gen 3, invece, la creatura umana entra in rapporto non soltanto con Dio ma con il mondo.

Uomo e donna sono chiamati a gestire la realtà che li circonda, sempre in dipendenza radi­cale da Dio, ma con autonomia e responsabilità.

Soltanto una lettura d’insieme di entrambi i racconti, quindi, ci consente di avere una visio­ne completa dell’uomo nel progetto di Dio, in rapporto con il Creatore, con gli altri esseri umani e con il mondo.

Vediamo brevemente come si svolge il dramma di Gn 3, facendo alcune osservazione alle diverse scene e, infine, offrendo alcune conclu­sione di ordine teologico.

La prima scena (‑3, 1‑7) racconta “la tentazione”.

La narrazione si apre con la presentazione del serpente, ricordando che esso è un anima­le, come tutti gli altri, creatura di Dio e nominato dall’uomo, anche se particolarmente astuto (3, 1)

Il testo dunque ci tiene ad eliminare ogni elemento soprannaturale del serpente: non si tratta né di una divinità, né di un avversario trascendente di Dio.

Certamente la scelta del ser­pente si spiega anche a partire dalla valutazione religiosa e mitica che si fa di quest ‘animale nel Vicino Oriente antico .
In Gen 3 il serpente ap­pare totalmente demitizzato: gli resta soltanto la parola, elemento indi­spensabile allo svolgimento del racconto. Ci troviamo su un profondo piano simbolico, perciò qualunque tentativo di spiegazione razionale del serpente è insoddisfacente.

Il serpente è spesso, nell’antico Vicino Oriente, simbolo della fertilità e della fecondità; rappresenta ed evoca “la vita naturale“, la dimensione irrazionale e impulsiva della natura umana; inoltre, trovandosi particolarmente a contatto con il suolo, il luogo da dove ogni vita sboccia e verso dove ogni essere vivente torna,”conosce” il mistero della vita e della morte; infine, essendo un animale che appare nelle tenebre, all’improvviso e per uccidere, è immagine de­gli istinti e del lato oscuro della personalità umana, e si oppone al mon­do della luce, della ragione, della libertà e del linguaggio .

Paradossalmente, il serpente “parla“, ma proprio parlando è una sorta di “anti‑parola” , giacché distorce e altera gravemente la parola divina e porta l’uomo alla rottura del dialogo con Dio.

Il serpente, in­fatti, citando le parole di Dio in Gen 2, 16‑17, ne mette in dubbio la pri­ma parte: “Potete mangiare di tutti gli alberi del giardino”, trasforman­dola in “non mangiare di nessun albero”.

Dice il contrario di quello che Dio aveva detto, offrendo all’uomo l’immagine di un Dio irrazionale e tirannico, mentre il comandamento di Dio era perfettamente ragionevo­le e in vista della conservazione della vita dell’uomo.

Il serpente mette il dubbio sul fatto che Dio abbia donato il giardino all’uomo per la vita e la libertà: “È proprio vero (in ebraico `af kî ) che Dio ha detto…?”.

Nelle parole del serpente si intravede una divinità che cerca la morte e non la vita dell’uomo .

Il serpente, più che una creatura nel senso fisi­co del termine, “è un momento sempre minaccioso e possibile nello stesso dialogo dell’uomo con Dio” .
Rappresenta il rischio dell’incom­prensione della parola divina e della rottura del dialogo con il Dio della libertà che non si impone con la forza.

Le parole del serpente fanno pensare a una divinità che vuole la morte e non la vita, un dio geloso e concorrente dell’uomo:

“Anzi, Dio  sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e divente­reste come dèi (`elóhîm)…” (v. 5).

Il peccato si presenta, allora, come un voler fare a meno di questo Dio.
Dio diventa il nemico da combattere; di fronte a questa prospettiva, non c’è altro da fare, se non liberarsi di questo Dio e occupare il suo posto.

Il verbo “mangiare“, che ricorre set­te volte nei primi sette versetti del capitolo, infatti, rimanda al desiderio che pervade la coscienza della coppia, che vuole impadronirsi di “qual­cosa” (“diventare come dèi, `elóhîm”).

Tutta la scena è invasa dal desi­derio, dall’appetito incontrollato.
In 3, 6, l’albero è visto soltanto come “buono da mangiare”.

Tutto il dramma narrato si può riassumere come scontro tra “due sapienze”, quella di Dio (Gen 2, 16‑17) e quella suggerita dal serpente (Gen 3, 1.4‑5).

La sapienza di Dio porta alla vita e introduce l’uomo nel mondo della gratuità dell’amore e della libertà; seguire le parole dell’a­stuto (`arum) serpente, porta soltanto alla scoperta della nudità (`aróm) con vergogna , una situazione radicalmente opposta a quella di 2, 25 e che indica l’inimicizia, la rottura di un rapporto di comunione, la paura della propria diversità e quindi la paura dell’altro e anche di Dio.

“La propria nudità ora è vista con paura; l’uomo, scoprendo col peccato la dimensione penosa e infame del suo limite, non può più accettarsi”. Uomo e donna adesso hanno paura di esporsi l’uno davanti all’altro perché ora si sentono minacciati a vicenda, cominciano a esperimentare la paura fondamentale, quella di morire, perciò “intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture” (v. 7).

La seconda scena descrive l’indagine (3, 8‑13), che si apre proprio con la menzione del verbo sama’,  ascoltare: “Ascoltarono il rumore (la voce) (qól) del Signore Dio che passeggiava nel giardino al vento del giorno” (v. 8).

È la prima volta che Dio appare nel racconto, ed è signi­ficativo che l’uomo, dopo che non ha saputo ascoltare il Signore, lo per­cepisca ora proprio attraverso l’ascolto.

Dio non si è allontanato dal­l’uomo e dalla donna, anzi passeggia familiarmente accanto a loro. Non è un Dio come quello suggerito dal serpente.

Ma l’uomo e la donna si nascondono da Lui perché, nella loro immagine di Dio, questi appare come qualcuno di cui aver paura.

La nudità ha cambiato radicalmente l’uomo, anche nel suo rapporto con Dio; essendo “nudo” non ci si può più fidare di Dio ed esporsi a Lui senza difese.

Tuttavia, Dio si presenta non per condannare. La sua prima parola: “Dove sei?”, una domanda insolita sulla bocca di un Dio onnisciente, diventa piuttosto un appello alla libertà dell’uomo: “Che hai fatto?” (v. 13). Con l’apparizione del Si­gnore torna la parola e il dialogo, e adesso ciò che loro fecero mossi dall’appetito incontrollato, “senza parole”, viene alla luce.

La domanda: “Che hai fatto?” appartiene al mondo giuridico, ed è la formula giuridi­ca con la quale il giudice fa appello alla responsabilità del accusato .

Ora, l’uomo e la donna devono “dire” ciò che fecero, e così diven­tare consapevoli del loro sbaglio; davanti a Dio e grazie alle sue doman­de, la loro coscienza si sveglia.

In realtà, questa seconda scena è una ri­petizione della prima; soltanto che questa volta tutto viene “detto” da­vanti a Dio.
L’apparizione di Dio, che indaga e va in cerca dell’uomo, ri­vela un Dio che salva l’uomo e che vuole aiutarlo a scoprire che, nono­stante tutto, la vita può continuare.

Tuttavia, l’uomo si difende accusan­do la donna, e quando Dio accusa la donna, questa si difende accusan­do il serpente.
È un modo indiretto di accusare Dio stesso.
L’uomo e la donna affermano così la loro idea di un Dio geloso e per nulla miseri­cordioso.

Il fatto che il serpente non sia interrogato potrebbe essere un espediente stilistico utilizzato dal narratore, per affermare che l’origine del male non può essere spiegata.

La terza scena è il verdetto (3, 14‑19). Dio si rivolge al serpente (vv. 14‑15), alla donna (v. 16), e infine all’uomo (vv. ~7‑19).

Ci sono due “maledizioni”: una per il serpente (3,14) e un’altra per la terra (v. 17).

L’uomo e la donna non sono maledetti. “Maledire” qualcuno vuol dire separarlo, escluderlo dalla comunità (famiglia, tribù, clan, ecc.), oppure dal mondo dei viventi ( Sal 69, 23‑29; 109, 6‑20) .

II serpente riceve una maledizione: è separato dalla compagnia degli altri animali. Come effetto della maledizione, ci sarà anche un’inimicizia, ovvero una sepa­razione, tra il serpente e la donna (e la sua stirpe) (3, 15) 102.

La maledizione del serpente è senza appello e rappresenta la condanna sul male, per rivelare la forza di menzogna e di morte che esso racchiude. La ma­ledizione che riguarda il suolo ha come espressione la tensione‑separa­zione che nasce tra l’uomo e la terra (3, 17; 2, 15).

Finalmente, anche se non si parla di una vera e propria maledizione, comincia un rapporto di disarmonia e dominazione tra l’uomo e la donna (3, 16). La condan­na dell’uomo e della donna si colloca in un mondo di relazioni ormai turbate: essi sono divenuti nemici (v. 16b) e nel mondo della vita è en­trato il dolore (v. 16a), la sofferenza (vv. 17‑18) e la morte (v. 19).

Tutto ciò è contrario al progetto divino narrato in Gen 2, che rappresenta l’uo­mo e il mondo ideali; Gen 3, invece, è il mondo reale, il nostro mondo.

Il contrasto tra il quadro ideale (Gen 2) e il quadro reale (Gen 3) è certa­mente drammatico e l’intento del narratore è mostrare il risultato tragi­co del peccato.

Quando Dio interviene e pronuncia “le punizioni” sul­l’uomo e la donna, in realtà, sta manifestando ciò che è già successo; in altre parole, sta rivelando e rendendo esplicite le conseguenze negative e mortali di ciò che è avvenuto: la morte è entrata nel mondo e l’armo­nia che contraddistingueva l’insieme di relazioni dell’umanità è scom­parsa: tra uomo e donna (si sono accusati mutuamente), tra uomo e ter­ra (il giardino è stato utilizzato per nascondersi), e tra uomo e Dio (l’uo­mo ha paura del Creatore).

Le parole che guardano l’uomo e la donna parlano di “sofferenza” all’interno di quelle attività che potrebbero definire in forma paradigmatica ciascuno di loro: nella donna, il parto, e nell’uomo, il lavoro della terra (Gen 3, 16‑19).

Sono come due simboli esistenziali attraverso i quali si esprimono le grandi potenzialità dell’essere umano creato ad immagine di Dio: nel parto, la donna dà alla luce una vita nuova; nel lavoro, l’uomo trasforma e agisce direttamente sul creato. Proprio nei momenti in cui l’essere umano esprime le sue capacità più vive, sperimenta una dimensione di negatività e di frustrazione, come conseguenza del peccato 103. La vita non è più serena e armoniosa, ma una realtà ambigua e dolorosa.

Perciò si parla anche di due “dominazioni“: quella dell’uomo sulla donna, che rispecchia due dati antropologici, lo status d’inferiorità della donna nei confronti dell’uomo e la sua situazione di soggezione in tante culture antiche e moderne ; e quella della morte sull’uomo, l’esperienza  ultima che colloca l’essere umano davanti alla propria verità di creatura, quando torna alla polvere da cui fu creato (Gen 2, 7; 3, 19).

La quarta scena è l’espulsione dal giardino (Gen 3, 20‑24), che para­dossalmente si apre subito dopo l’annuncio della mortalità dell’uomo con una indicazione che evoca la vita: “L’uomo chiamò la moglie Eva (hawwàh, dall’ebraico hàyah, “vivere), perché essa fu la madre di tutti i viventi”.

È una forma di dire che, nonostante la forza mortale del peccato, la vita ‑ anche se lacerata e ambigua ‑ continua come espres­sione della benedizione divina. Il dominio del serpente e della morte non è l’ultima parola sulla storia dell’uomo, secondo le parole di spe­ranza di Gen 3,15.

Dopo il peccato si afferma solennemente la speranza nella vita. Il doppio nome

che la donna riceve nel racconto ha una va­lenza teologica rilevante:

prima del peccato si chiamava `issah (“don­na”); dopo il peccato è hawwàh, “vita”.

È importante che la maternità venga sottolineata non prima, ma dopo il peccato.

Il testo afferma con forza la possibilità della vita in mezzo alla morte, perché Dio è capace di trasformare la morte in vita.

Poi si dice che “il Signore Dio fece all’uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì” (v. 21).

Il testo rinvia alla nudità dell’uomo e della don­na in Gen 2, 25 e 3, 7, testi che non hanno assolutamente connotazioni sessuali.
Dopo il peccato, quando “si accorsero di essere nudi”, diven­tando nemici l’uno per l’altro (“nudità con vergogna”), il fatto di co­prirsi intrecciando foglie di fico per fare cinture (3, 7) è un tentativo di rimediare la situazione ormai minacciosa e piena di paura. Inutile, ormai sono “nudi”.

Tuttavia, Dio non li abbandona alla nudità, ma fece per lo­ro delle tuniche di pelli e li vestì.
Il vestito è simbolo della dignità di una persona.

Dare un vestito a qualcuno è segno di una particolare solle­citudine; talvolta indica anche che ad una persona è stata concessa una determinata autorità ( Is 22, 21).

La parola kuttónet, utilizzata per dire “tunica”, designa un vestito particolare, ad esempio la tunica dalle lunghe maniche che Giacobbe fe­ce al suo figlio Giuseppe come segno di predilezione (Gen 37, 3.23.31­33); la tunica dei sacerdoti (Es 28, 39; 39, 27; Nm 26, 28; Lv 8, 13) o i vestiti dell’amata nel Cantico dei cantici (Ct 5, 3).

Pertanto, l’azione di Dio qui descritta esprime la sua speciale premura e protezione benevo­la nei confronti dell’uomo e della donna.

D’altra parte, vista la somi­glianza terminologica con quella utilizzata in relazione con le vesti dei sacerdoti, non è da scartare anche una possibile allusione al culto, che con il Resto divino sarebbe qui anticipato, e che poi diventerà il mezzo per ritrovare quel rapporto di comunione con Dio rotto dal peccato.

Come il sacerdote non poteva salire sull’altare di Dio senza coprirsi la sua nudità (Es 20, 26; 28, 42), l’uomo non potrebbe avvicinarsi a Dio nudo.

Infine, al centro della scena, prima dell’espulsione vera e propria, il narratore propone una riflessione di Dio (v. 22).

L’uomo ha ottenuto quello che il serpente gli aveva prospettato: si è messo al posto di Dio e gli manca solo l’immortalità per uguagliarlo.

Dio, pertanto, vieta all’uo­mo l’accesso all’albero della vita, simbolo appunto dell’immortalità. L’uomo non è Dio e non può avere la pretesa folle e assurda di diventa­re come Lui e usurpare il suo posto.

La scena della cacciata dal giardi­no suppone certamente un atto di rottura, che ha come scopo quello di spiegare la condizione umana attuale, ma il giardino esiste e continua a esistere come possibilità reale, dal momento che Dio non lo ha distrut­to.

Ha solo messo “due cherubini e la fiamma della spada folgorante”, perché l’uomo non se ne impadronisca senza averne il diritto.

In realtà, il giardino di Gen 2 continua ad essere presente nella bel­lezza e la vita del mondo; l’uomo continua a custodire e conservare il giardino, trovando sempre di più nuove espressioni di domino sul crea­to (2,15); e, infine, non è scomparsa la possibilità del rapporto interu­mano, che nacque nel giardino di Eden dalla dualità uomo‑donna e dal­la gioia dell’incontro tra i sessi.

Tuttavia, l’esistenza umana è segnata da una drammatica ambivalenza.

Il mondo non è quello che dovrebbe es­sere, quello pensato e voluto da Dio. La terra non è più il giardino di Gen 2, ma sembra che sia tornata ad essere il deserto delle origini, piena di “cardi e spine” (Gen 2, 4b‑5; 3, 18), sfruttata dall’uomo senza pietà e, proprio per questo, coinvolta in un processo di minaccia autodistrutti­va; il lavoro è diventato una realtà dura e piena di conflitti a causa della produzione e distribuzione ingiusta dei beni materiali; la comunione in­terumana si è spezzata drammaticamente, non solo nella espressione fondante di uomo e donna, ma in tutte le altre forme di rapporto inte­rumano, che sembrano dominati dalla violenza e dall’oppressione.

Secondo l’autore di Genesi, l’unico responsabile di tutta questa si­tuazione è l’uomo che ha rotto il suo dialogo con Dio, lasciandosi tra­scinare dall’anti‑sapienza rappresentata dalle parole ingannevoli del ser­pente, che lo ha portato alla paura e al fallimento.

All’inizio della nostra storia e alla radice del nostro mondo c’è il peccato, c’è un fallimento che si estende da generazione in generazione lungo la storia umana (Rm 5).

Gen 2 ‑ 3 è il grande prologo della storia biblica, una vera e propria in­troduzione all’esperienza di salvezza vissuta e testimoniata da Israele.

A differenza di altri miti di creazione, tuttavia, questi capitoli della Scrit­tura non raccontano ciò che esiste da sempre e che si dovrà ripetere inesorabilmente per sempre. Gen 2 ‑ 3

è invece, un prologo, a carattere mi­tico, che introduce e fa sorgere una storia che dipende interamente dal­le scelte dell’umanità.

Nella misura in cui ogni uomo fa esperienza del male, incarna in sé quell’esperienza “originaria” narrata all’inizio della Bibbia, e fa crescere al tempo stesso in tutti coloro che vengono dopo i mali di cui l’umanità è colpevole.

L’espulsione del giardino tuttavia non ha annullato nell’uo­mo la capacità di fare il bene.

Dopo la disobbedienza, Dio è andato in cerca dell’uomo e della donna per farli uscire dalla menzogna e dalla paura; la discendenza di Eva riceve un nome significativo, “i viventi”

(Gen 3, 20); non è una umanità nuda, ma rivestita da Dio attraverso un segno di particolare benevolenza (Gen 3, 21).

La storia biblica è possibi­le perché l’autore di Gen 2 ‑ 3 sa che Dio è dialogo costante e amore gra­tuito.

Proprio li dove l’uomo liberamente ha scelto la morte, Dio conti­nua a offrirgli la vita e la salvezza. Dio non ha rinunciato al suo proget­to di pienezza umana abbozzato in questi capitoli.

CONCLUSIONE

La teologia di Gen 1 ‑ 3 ci colloca di fronte alle linee basilari della antropologia biblica.

L’immagine dell’uomo che emerge da queste pagi­ne dell’Antico Testamento è segnata fortemente da due principi: la gra­tuità dell’esistenza e il mistero dell’alterità.

  • L’uomo biblico riceve la vita da un Altro ed è chiamato ad accoglierla con spirito di riconoscen­za e di stupore; sentendosi spinto, al tempo stesso, dalla gratuità e dal­l’amore ricevuto ad aprire le mani e il cuore alla comunione e alla con­divisione con gli altri.
  • Alla scuola dell’alterità, l’uomo biblico è chiama­to a scoprire la libertà che gli è stata offerta e ad imparare ad assumer­la, senza deformarla in individualismo o autosufficienza, come luogo d’incontro con il cosmo, con gli altri, con Dio e con se stesso.
  • Alla luce dell’azione di Dio e nel colloquio con Dio l’uomo biblico si scopre non come un dato definito, come una realtà chiusa, bensì come un essere aperto, chiamato a riconoscere e ad ammettere il mistero dell’alterità dell’universo, degli altri, e di Dio.