Guariento Mario | PRIMO PENSIERO FOLLE IN LIBERTA’
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PRIMO PENSIERO FOLLE IN LIBERTA’

27 Ago PRIMO PENSIERO FOLLE IN LIBERTA’

Vorrei iniziare a condividere o semplicemente dire a me stesso pensieri folli che attraversano la mia mente malata. Forse anche nella follia c’è lo Spirito come diceva un mistico finito in manicomio. La vita spirituale costituisce un incessante disinganno in vista di una gioia più grande. Il Senso, Dio, che cos’è se non questo movimento in noi, che penetra tutti i desideri, quel quasi niente che ci fa vivere e ci uccide? Da principio ero convinto di ciò che mi avevano insegnato: ossia si potesse staccare dall’Evangelo un pensiero, mettere insieme una specie di sintesi maneggevole, cui attenersi in nome dell’umiltà e dell’obbedienza. Che fosse sufficiente piluccare alcuni versetti, qua e là, per illustrarla.

A poco a poco sono venuto a scoprire ciò che molti di quelli che mi avevano fatto scuola, trattenuti dalla paura, non ignoravano certo tutte le ricerche condotte sul Nuovo Testamento, ma era evidente che la pretesa di ridurre le differenze equivaleva a tagliare gli individui dalle radici concrete della fede.

Gesù non ha scritto, non ha dettato. Sarebbe stata una presenza eccessiva. Rimane tuttavia il problema: come accertare che i dettatori e i redattori non abbiano tralasciato nessun elemento essenziale. Fede non significa credulità. Venerare l’Evangelo come un oggetto sacro, la cui lettura produrrebbe effetti benefici, è nient’altro che una pretesa magica. Il vero rispetto si traduce in una ricerca incessante. Come era necessario che Gesù si assentasse perché potesse venire lo Spirito, così era necessario indubbiamente che la sua parola fosse gettata, nutrita, portata, ricreata da uomini, in rapporto ai caratteri, agli ambienti e alle circostanze. Per cui ciò che importa non è tanto credervi, quanto piuttosto che ciò cresca in noi, avendo trovato nutrimento.

In questo fatto si scopre una realtà inesauribile. Le diversità di prospettiva caratteristiche dei Vangeli, le lacune, ambiguità o contraddizioni, l’incertezza stessa in cui ci dibattiamo a riguardo di ciò che appartiene a Gesù, allarga la libertà del cristiano. Il pluralismo spirituale si trova già incluso nei testi, così come nell’esperienza dei primi cristiani. L’unità non ti realizza al di fuori, mediante l’ideologia. L’unità è un fatto interiore e si innesta nelle differenze.

Mi sono domandato parecchie volte se fosse possibile essere impersonale, ossia semplicemente obbediente, dando l’adesione a un Gesù ufficiale e obbligatorio.
No. A meno di tradire. L’impersonalità e la dimenticanza di sé, mascherate sovente sotto il velo della fedeltà, non sono altro che dimissione, paura e pigrizia.
Ciò che voglio percepire è la Parola gettata nel rischio incessante, allo stesso modo che Gesù si abbandonò a tutti i rischi.

La parola ampia e non provinciale, non il discorso stereotipato degli affetti, non le tiritere e i commentari. Ogni predicazione sia l’Evangelo oggi, cioè l’incontro, in una forma e un soffio, tra il testo e quella parola interiore che si esprime in ogni uomo, uguale eppure diversa. Inutile parlare di risurrezione se le parole non sono risuscitate, se la gioia non batte le ali, dentro.

Qui non intendo affatto sostenere che ciascuno debba inventarsi un Gesù personale, ma che sia in condizione di esplorare il Gesù imprevedibile. Ovviamente qualsiasi lettura si fa attraverso i nostri desideri personali. Per cui, quando parlo di Gesù, lo voglia o no, parlo di me.

Il senso è evidente. Impossibile essere esentati dal rischio dell’interiorità. Parlare di soggettivismo e di fideismo significa reagire in base a schemi filosofici, bisogna invece contrapporre il rigore spirituale. Ogni messaggio che non germogli in una coscienza può considerarsi morto.

L’unità dottrinale, per quanto risulti necessaria, è, alla fin fine, soltanto un’unità amministrativa. Avere a disposizione un significato chiuso e unico per addomesticare il mistero: ecco il suo sogno. Un sogno di potenza. Bisogna dunque concludere che tutto deve frammentarsi e dissolversi? Vorrebbe dire dimenticare lo Spirito che è legame di Unità.

Il senso organizzato su un modulo razionale, quando tende a sostituirsi alla Parola, costituisce un rifiuto dello Spirito Santo.

Ecco perché il Messia, già venuto, deve sempre venire, risuscitare, deve sempre essere strappato agli Scribi.

L’interprete dell’Evangelo non può essere un amministratore del significato, ma soltanto esploratore e profeta. Infatti la parola è prima di tutto legata alla vita concreta e all’avvenimento, non a un qualche sistema di pensiero. La parola non è mai stata pronunciata per trascinare essenzialmente la ragione e nemmeno per convincerla, ma unicamente per mettere in movimento la vita. Il suo potere precede la chiarezza. È un potere che si traduce in una chiamata, e passa attraverso le contraddizioni senza neppure avvertirle. Non esiste un Evangelo nella sua freschezza originaria. Rimossi i filtri di lettura, diventa sconcertante.

Bisogna dimenticare ciò che si sa, che si crede di sapere, accogliere il testo nella sua nudità, lasciarsi investire dal suo soffio. Indubbiamente senza una grazia non è possibile ritrovare un secondo candore.

Immaginare la lettura della Scrittura come un assoluto rappresenta una maniera indiretta di rifiuto della parola, la quale può essere soltanto nuova creazione. Significa vedere Dio dietro, quando invece è avanti, imprevedibile. Una parola che fosse totalmente divina, obiettiva insomma, non potrebbe che fare degli schiavi e sarebbe un monumento sepolcrale.

Soffio, ritmo e gesto, parabola e paradosso, sono semplici e segreti a un tempo, e possono essere svelati solo progressivamente. Chi riceve l’evangelo rientra nell’ombra, non ha mai finito di esplorarlo, non gli viene certo l’idea di sfruttarlo, lo lascia crescere in sé, occupare tutto il posto.

Il fatto è che il poema degli Evangeli riguarda l’esistenza e tende a sollevare come un lievito, e non ha assolutamente la pretesa di dirigere la vita con dei princìpi e degli slogans.

Sovente Gesù viene respinto senza esame o, peggio, viene ammirato come un grande uomo, un « eroe della nostra civilizzazione », a proposito del quale gli apostoli d’oggi interrogano i notabili, credendo di fare opera di fede. Ebbene, tutto ciò è dovuto al fatto che la pietà ne ha offerto un’immagine ora tiepida e legalista, ora mondana; che non si smette più di evocare un morto nell’istante stesso in cui si parla di risurrezione.

Quando mi sentite parlare di evangelo, parlo di quella cosa che è legata ai gesti della vita, parlo di una maniera di esistere, di un risveglio, di un ardore.

La tiepidezza, una falsa idea dell’obbedienza, l’inflazione verbale, la stanchezza: tutti questi elementi fanno continuamente sentire il loro peso. Ma forse che abbiamo intenzione di chiedere a tutti i professori dell’Università di essere degli iniziatori, a tutti i preti della scacchiera di essere dei profeti, a tutti i vescovi di essere successori degli apostoli? Ognuno se ne sta lì, reclutato, con la sua buona volontà, la sua luce e i suoi paraocchi, le proprie ferite e la propria ambizione. Ebbene! Non aspettiamoci che si predichi la purezza. Gesù è tradito, lo sarà sempre.

Fu così che questo popolo tranquillo, Israele, stette in comunione col bambino perseguitato, col giovane uomo di trent’anni sempre in cammino, che i suoi volevano far passare per pazzo, col crocifisso, col risuscitato, con quel ribelle a cui ogni società non può che impedire di nuocere, in comunione ora per mezzo della violenza, ora per mezzo della venerazione.

C’è qualcosa di incredibile in questo tentativo di assimilazione e di neutralizzazione che non si è ancora arrestato dopo tanti secoli…

Signore, guariscici dalla paura di mancare e insieme, conservarci la giovinezza del cuore.
Ma qualcosa di più sensazionale ancora: voglio dire il fatto che sempre, in seno all’illusione e all’ipocrisia, perduti nella folla, ci furono dei santi, conosciuti e ignoti, e che la Parola non ha mai cessato di aprirsi una strada nella carne degli uomini.