01 Set LITURGIA 3
La liturgia luogo dove si rappresenta l’ invisibile
Il tentativo di rappresentare l’invisibile è una costante delle religioni, dei miti, della mistica. Se si pone la questione in riferimento alla liturgia, le difficoltà sembrano aumentare, soprattutto a causa del fatto che il culto di tipo rituale è così aggravato dalla fisicità, esteriorità, corporeità, da essere spesso percepito come poco adatto alla contemplazione. L’idea stessa di un atteggiamento contemplativo strettamente connesso alla sfera invisibile non sembra compatibile con la materialità dell’azione e in particolare dell’ azione rituale.
Alla base sta la convinzione, molto diffusa nel modo di pensare comune ma anche a livelli più profondi, che l’assenza di visibile sia la condizione per la presenza dell’invisibile. E poiché si accosta il visibile all’atto della rappresentazione, si giunge alla conclusione che l’invisibile non sia rappresentabile: l’invisibile non può venire catturato dal visibile e quindi non può essere rappresentato. Ma che cos’è l’invisibile? E forse il non vedere? E che cos’è una rappresentazione? Forse un semplice descrivere visivo?
L’affermazione secondo la quale la contemplazione è un rappresentare l’invisibile, non solo grazie alla vista, ma anche grazie agli altri sensi, porta direttamente al rito, che è appunto il modo con cui ci si apre al sacro, al mistero, a Dio, compiendo dei gesti, facendo un pasto, ricorrendo al tatto e al contatto, delineando lo spazio, declinando il tempo, organizzando il suono.
Il punto nodale è che l’udire, il vedere, il gustare, il toccare, l’odorare, lo spazializzare, sono la rete sensibile che colloca l’individuo nell’ambiente, lo orientano nel mondo, lo rendono parte del tutto. In questo modo la liturgia realizza la contemplazione, non solo perché consente di percepire le cose visibili come parte dell’invisibile e quindi come rimando all’invisibile, ma perché fa sentire il sé come parte nel tutto, come visibile nell’invisibile. Viene così superata l’opposizione tra l’uomo che si presenta sotto la figura del soggetto e il mondo che viene troppo spesso relegato a un oggetto: e ciò non per un’improbabile fusione ma per un’armonica appartenenza.
La contemplazione è percepire se stessi nel tutto.
Forse qui sta il vero senso del «conosci te stesso». Si tratta, infatti, di conoscere se stessi, ossia di vedersi non come un soggetto contrapposto a un oggetto, ma come uno che respira con l’ambiente, con gli altri, con Dio: il respiro, visibile e tangibile, si congiunge così con lo spirito, invisibile e intangibile.
La contemplazione è vedere se stessi nell’invisibile.
La liturgia è autocollocazione nel tutto e nell’invisibile, con tutti e con Dio. Non a caso, le arti, che declinano i diversi sensi umani, sono nate per lo più nei riti sacri dove vi coabitano realizzando quella sinergia che è alla base dell’ esperienza simbolica. II riferimento al simbolico deve essere chiarito per evitare equivoci. Non esistono i simboli, quasi fossero cose da utilizzare al momento opportuno: esiste, invece, la dimensione simbolica dell’esperienza che attraversa le cose congiungendole alla sfera più intima di chi le guarda, le sente, le ascolta.
Non è vero, quindi, che nel rito vi sono tanti simboli, mutuati dall’ esterno e raggruppati nel momento della celebrazione; è vero piuttosto che il rito è il contesto grazie al quale si danno i simboli, o meglio si danno le condizioni per trascrivere simbolicamente l’esperienza del mondo. In questo senso, il rito è l’apparire del mondo, del tutto, dell’invisibile.
Naturalmente qui come altrove sono sempre in agguato errori di prospettiva. Si può guardare un’ immagine nel rito o il rito stesso, e così non si vede altro che l’icona o la liturgia.
L’esperienza simbolica capace di rappresentare l’invisibile consiste nel guardare attraverso l’immagine; in modo che l’immagine sia come l’occhio, e soprattutto guardare attraverso il rito, in modo che il rito sia lo sguardo sulle cose: in tal modo si vede non solo guardando ma anche toccando, udendo, gustando, anzi si vede l’invisibile proprio perché non ci si limita a guardare ma si tocca, si ode, si gusta.
Non è la singola celebrazione rituale che fa accedere automaticamente alla contemplazione, ma il complesso percorso rituale. Il rito, infatti, implica anzitutto la ripetizione, grazie alla quale si vengono costruendo quelle attitudini che predispongono il credente alla contemplazione.
La qualità del rito è legata a lungi percorsi di iniziazione e a ripetuti momenti celebrativi che contribuiscono in modo decisivo sulle predisposizioni umane alla contemplazione, ossia alla capacità di vedere l’invisibile.