13 Ago ESSENZIALITA’ 2
L’ESSENZIALITA’, strumento di equilibrio dei bisogni e dei desideri.
La essenzialità allora fa spazio a processi che favoriscano il ritorno all’interiorità; che consentano di fare discernimento tra bisogni e valori, e ancora tra bisogni veri (e liberanti) e bisogni falsi (e alienanti); che sappiano soprattutto costruire un rapporto positivo tra istanze soggettive ed istanze sociali, contribuendo all’edificazione di un mondo più a misura di uomo.
Essere essenziali significa prendere possesso di sé, riscoprire, mediante un processo di concentrazione interiore, le radici ultime del proprio essere e del proprio agire. Significa risalire alla fonte originaria della propria individualità, unica e irripetibile, e assumersi fino in fondo la responsabilità del proprio destino, reagendo ad ogni forma di massificazione e di omologazione. Nata dalla libertà, la essenzialità in questo modo la consolida, orientandola verso il compimento di scelte autentiche che favoriscono l’unificazione della persona e ne impediscono la caduta nella dispersione e nella frammentazione.
Possiamo qui ritrovare l’interpretazione data da Levinas: ildesiderio umano è «desiderio dell’invisibile» o «desiderio metafisico», è una «tensione verso una cosa totalmente altra, verso il totalmente altro». Il bisogno è saziabile, il desiderio insaziabile, perché apre alla trascendenza metafisica, all’alterità assoluta. Il desiderio «si situa al di là della soddisfazione o insoddisfazione»; lo attua «la relazione con Altri, o l’idea dell’infinito»; tutti lo possono vivere nello «strano desiderio di Altri, che nessuna voluttà riesce a coronare, a chiudere, a sopire»; si attua non soddisfacendosi come se fosse un bisogno, ma trascendendosi, per esempio nella paternità, che è «desiderio che genera desiderio». La relazione metafisica del desiderio è “religione”.’
E questo mi ricorda un’altra parola: «Il tuo desiderio è la tua preghiera», detta da sant’Agostino commentando le parole delSalmo 37: «Mi faceva urlare il gemito del mio cuore. Ogni mio desiderio sta davanti a te». Dobbiamo pregare incessantemente — continua Agostino —, ma non è possibile stare sempre in ginocchio o con le braccia levate. Però «c’è un’altra preghiera, che è senza interruzione, ed è il desiderio. Qualunque cosa tu faccia, se desideri quel sabato (che è il riposo di Dio), non smetti mai di pregare. Se non vuoi interrompere di pregare, non cessare di desiderare». La preghiera, dunque, come un desiderio della nostra effusione e tensione, non solo un bisogno della nostra povertà.
Chi ama la essenzialità, gusta il colore, il sapore, ammira la forma, i colori, gli aromi di un piatto ben cucinato, e comunica ad altri commensali la sua comune gioia e piacere: non per nulla chiamiamo convivialità la piacevolezza dello stare insieme. E una forma non esasperata nè violenta di piacere, ma è un vero piacere complesso, che contiene anche la comunicazione.
Ecco dunque essenzialità distinta da austerità. E qui emerge che la essenzialità riguarda i bisogni, non i desideri nel senso forte di Levinas. La gioia e il piacere della convivialità non richiedono la moderazione intelligente, necessaria al bere e al mangiare: non sono mai troppo grandi, non è mai satura la comunicazione, la «coralità» del crescere in umanità.
Il sistema industriale è umanamente fallito, perché, moltiplicando i bisogni moltiplica le carenze e «la frustrazione profonda generata mediante il soddisfacimento obbligatorio e condizionato». Come non pensare alla pubblicità imperiosa e incantatrice, martellante e follemente ripetitiva, che promette felicità iniettando infelicità? Già Illich diceva che questa ha finanziarizzato l’economia, allontanandola più che mai dai reali bisogni umani; ha delocalizzato il lavoro produttivo, buttato in balia della speculazione danaristica e dell’accanimento competitivo; ha sradicato dalla società locale sia la fabbrica sia l’operaio, allontanando ancora terribilmente quella convivialità che Illich indicava e sperava come soluzione della disumanità dell’industrialismo.
L’economia corsara, di rapina, è gemella della guerra, suo braccio armato e condizione di permanenza. E in un libro sulla guerra, infatti, che Eugen Drewermann definisce come merita:
“Ciò che nessuno vuole vedere è che un’economia che si mantiene solo a condizione di una crescita permanente è in sé una catastrofe. La crescita è alla base di tutto ciò che facciamo. E necessario espandersi, a qualsiasi condizione: più si cresce meglio è. Questa cultura economica non è cancerogena, è il cancro mentale e sociale in atto. Ogni notiziario economico quotidiano ce lo butta in faccia come se fosse salute, o legge naturale, e noi non ci siamo ancora ribellati.
Non si può costruire una società giusta su questi presupposti, sulla prevalenza del consumo, dell’accumulazione e di tutte le esigenze del mercato, negazione radicale, ontologica, di quello che è la società. Sono manifestazioni di egoismo feroce. Oggi responsabile è il”mercato”. Ma alla fine cadrà sopra se stesso, come l’idolo coi piedi di terracotta.”
La pubblicità identifica il progresso umano con le ultime frenetiche trovate tecnologiche, dagli apparati tascabill a quelli spaziali, quasi l’unica eredità che noi adulti consegniamo ai giovani. L’idea di infinito che ci è rimasta è quella individuata nella crescente potenza materiale del super homo faber, non nel cammino interminabile dello spirito. Così perdiamo i desideri (nel senso pieno mostrato da Levinas) e inseguiamo bisogni diventati irraggiungibii, vitelli d’oro, scimmiottature dei desideri.
Tutti sappiamo che non è vero, che la felicità umana non è lì, nelle cose, ma una cultura schiacciante, la voce minacciosa del padrone, ce lo tuona di continuo in testa e noi, umanità “sviluppata” di oggi, viviamo da obbedienti all’inganno, stolti che più non si può: l’infinito del desiderio che ci fece umani è per noi racchiuso nelle cose, che paiono animate dai meccanismi minuscoli e prodigiosi che vi abbiamo immesso. Possiamo, con un po’ di saggezza, servirci con essenzialità e giustizia delle invenzioni utili, e vivere anche la dimensione umana dispiegata, al di là delle cose.
Siamo dunque sotto l’impero dei falsi bisogni.
Il problema non è risolto con un calcolo meticoloso di bisogni e desideri. Occorre un equilibrio dinamico. Si sta in equilibrio se ci si muove con essenzialità e libertà. Per ridurre la dipendenza dai bisogni indotti, falsi, ipertrofici, schiavizzanti, molto varrà sviluppare i desideri pienamente umani, e la convivialità, E sempre mantenere ben inquieta la coscienza, che è la spinta dell’equilibrio dinamico e la vigilanza contro le cadute.
Nasciamo e viviamo in condizione di necessità, di bisogno, ma chiamati alla libertà, in cammino per la libertà: non la libertà dagli altri, la libertà dalla riduzione disperata dei nostri desideri, riduzione del nostro essere.
L’essenzialità, strumento di equilibrio dei bisogni e dei desideri.
La essenzialità allora fa spazio a processi che favoriscano il ritorno all’interiorità; che consentano di fare discernimento tra bisogni e valori, e ancora tra bisogni veri (e liberanti) e bisogni falsi (e alienanti); che sappiano soprattutto costruire un rapporto positivo tra istanze soggettive ed istanze sociali, contribuendo all’edificazione di un mondo più a misura di uomo.
Essere essenziali significa prendere possesso di sé, riscoprire, mediante un processo di concentrazione interiore, le radici ultime del proprio essere e del proprio agire. Significa risalire alla fonte originaria della propria individualità, unica e irripetibile, e assumersi fino in fondo la responsabilità del proprio destino, reagendo ad ogni forma di massificazione e di omologazione. Nata dalla libertà, la essenzialità in questo modo la consolida, orientandola verso il compimento di scelte autentiche che favoriscono l’unificazione della persona e ne impediscono la caduta nella dispersione e nella frammentazione.
Possiamo qui ritrovare l’interpretazione data da Levinas: ildesiderio umano è «desiderio dell’invisibile» o «desiderio metafisico», è una «tensione verso una cosa totalmente altra, verso il totalmente altro». Il bisogno è saziabile, il desiderio insaziabile, perché apre alla trascendenza metafisica, all’alterità assoluta. Il desiderio «si situa al di là della soddisfazione o insoddisfazione»; lo attua «la relazione con Altri, o l’idea dell’infinito»; tutti lo possono vivere nello «strano desiderio di Altri, che nessuna voluttà riesce a coronare, a chiudere, a sopire»; si attua non soddisfacendosi come se fosse un bisogno, ma trascendendosi, per esempio nella paternità, che è «desiderio che genera desiderio». La relazione metafisica del desiderio è “religione”.’
E questo mi ricorda un’altra parola: «Il tuo desiderio è la tua preghiera», detta da sant’Agostino commentando le parole delSalmo 37: «Mi faceva urlare il gemito del mio cuore. Ogni mio desiderio sta davanti a te». Dobbiamo pregare incessantemente — continua Agostino —, ma non è possibile stare sempre in ginocchio o con le braccia levate. Però «c’è un’altra preghiera, che è senza interruzione, ed è il desiderio. Qualunque cosa tu faccia, se desideri quel sabato (che è il riposo di Dio), non smetti mai di pregare. Se non vuoi interrompere di pregare, non cessare di desiderare». La preghiera, dunque, come un desiderio della nostra effusione e tensione, non solo un bisogno della nostra povertà.
Chi ama la essenzialità, gusta il colore, il sapore, ammira la forma, i colori, gli aromi di un piatto ben cucinato, e comunica ad altri commensali la sua comune gioia e piacere: non per nulla chiamiamo convivialità la piacevolezza dello stare insieme. E una forma non esasperata nè violenta di piacere, ma è un vero piacere complesso, che contiene anche la comunicazione.
Ecco dunque essenzialità distinta da austerità. E qui emerge che la essenzialità riguarda i bisogni, non i desideri nel senso forte di Levinas. La gioia e il piacere della convivialità non richiedono la moderazione intelligente, necessaria al bere e al mangiare: non sono mai troppo grandi, non è mai satura la comunicazione, la «coralità» del crescere in umanità.
Il sistema industriale è umanamente fallito, perché, moltiplicando i bisogni moltiplica le carenze e «la frustrazione profonda generata mediante il soddisfacimento obbligatorio e condizionato». Come non pensare alla pubblicità imperiosa e incantatrice, martellante e follemente ripetitiva, che promette felicità iniettando infelicità? Già Illich diceva che questa ha finanziarizzato l’economia, allontanandola più che mai dai reali bisogni umani; ha delocalizzato il lavoro produttivo, buttato in balia della speculazione danaristica e dell’accanimento competitivo; ha sradicato dalla società locale sia la fabbrica sia l’operaio, allontanando ancora terribilmente quella convivialità che Illich indicava e sperava come soluzione della disumanità dell’industrialismo.
L’economia corsara, di rapina, è gemella della guerra, suo braccio armato e condizione di permanenza. E in un libro sulla guerra, infatti, che Eugen Drewermann definisce come merita:
“Ciò che nessuno vuole vedere è che un’economia che si mantiene solo a condizione di una crescita permanente è in sé una catastrofe. La crescita è alla base di tutto ciò che facciamo. E necessario espandersi, a qualsiasi condizione: più si cresce meglio è. Questa cultura economica non è cancerogena, è il cancro mentale e sociale in atto. Ogni notiziario economico quotidiano ce lo butta in faccia come se fosse salute, o legge naturale, e noi non ci siamo ancora ribellati.
Non si può costruire una società giusta su questi presupposti, sulla prevalenza del consumo, dell’accumulazione e di tutte le esigenze del mercato, negazione radicale, ontologica, di quello che è la società. Sono manifestazioni di egoismo feroce. Oggi responsabile è il”mercato”. Ma alla fine cadrà sopra se stesso, come l’idolo coi piedi di terracotta.”
La pubblicità identifica il progresso umano con le ultime frenetiche trovate tecnologiche, dagli apparati tascabill a quelli spaziali, quasi l’unica eredità che noi adulti consegniamo ai giovani. L’idea di infinito che ci è rimasta è quella individuata nella crescente potenza materiale del super homo faber, non nel cammino interminabile dello spirito. Così perdiamo i desideri (nel senso pieno mostrato da Levinas) e inseguiamo bisogni diventati irraggiungibii, vitelli d’oro, scimmiottature dei desideri.
Tutti sappiamo che non è vero, che la felicità umana non è lì, nelle cose, ma una cultura schiacciante, la voce minacciosa del padrone, ce lo tuona di continuo in testa e noi, umanità “sviluppata” di oggi, viviamo da obbedienti all’inganno, stolti che più non si può: l’infinito del desiderio che ci fece umani è per noi racchiuso nelle cose, che paiono animate dai meccanismi minuscoli e prodigiosi che vi abbiamo immesso. Possiamo, con un po’ di saggezza, servirci con essenzialità e giustizia delle invenzioni utili, e vivere anche la dimensione umana dispiegata, al di là delle cose.
Siamo dunque sotto l’impero dei falsi bisogni.
Il problema non è risolto con un calcolo meticoloso di bisogni e desideri. Occorre un equilibrio dinamico. Si sta in equilibrio se ci si muove con essenzialità e libertà. Per ridurre la dipendenza dai bisogni indotti, falsi, ipertrofici, schiavizzanti, molto varrà sviluppare i desideri pienamente umani, e la convivialità, E sempre mantenere ben inquieta la coscienza, che è la spinta dell’equilibrio dinamico e la vigilanza contro le cadute.
Nasciamo e viviamo in condizione di necessità, di bisogno, ma chiamati alla libertà, in cammino per la libertà: non la libertà dagli altri, la libertà dalla riduzione disperata dei nostri desideri, riduzione del nostro essere.