07 Ott LA VITA CRISTIANA COME CAMMINO
Il camminare è davvero un’esperienza connaturale all’uomo, egli è un essere itinerante, sempre in cammino non solo in senso geografico spaziale, ma in cammino verso il raggiungimento della sua pienezza.
Nel tessuto del mondo, la vita dell’uomo è una grande avventura, che conosce percorsi agevoli, lieti ma anche momenti di perplessità, arresti, crisi, desiderio di tornare indietro, ma proprio attraverso queste fasi egli cresce negli anni, e anche matura umanamente e spiritualmente.
Il camminare, esigenza fondamentale dell’uomo, è già evidenziata dalla Bibbia che, prima di tutto, ci mostra lo stesso Dio in cammino e, poi, evidenzia che il Vivente coinvolge l’uomo nel suo cammino.
Il profeta Michea, annota che camminare umilmente con Dio è una delle dimensioni inseparabili che configurano l’esperienza umana e spirituale dell’uomo: «Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio» (Mi 6,8).
Il “camminare con Dio” esprime sia il dinamismo dell’esistenza umana sia il fondamento dell’esperienza di fede, cioè la conoscenza e l’esperienza di Dio.
E Dio, in Gesù, si è fatto umano, compagno di viaggio di ogni uomo che lo accoglie. Lui, la “Via”, ci educa ad uscire dalla caverna egotica che rende ciechi e immobili, ci strappa da una logica mondana e di potere, ci apre orizzonti sempre nuovi e scopriamo che il viaggio della vita non lo facciamo da soli, ma assieme a tante altre persone che non sono nemici o estranei, ma fratelli. Essi sono la soglia dove ogni uomo comincia veramente a vivere.
Si può vivere senza lasciar trasparire una sorta di cocciuta resistenza, di irremovibile rigidità, come se tutto fosse già fatto e non ci fosse invece ancora un da farsi nella vita di ciascuno.
«Il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: Dove sei?» (Gen 3,9). «Ogni volta che Dio pone una domanda di questo genere non è perché l’uomo gli faccia conoscere qualcosa che lui ancora ignora:
vuole invece provocare nell’uomo una reazione, colpire al cuore l’uomo e che l’uomo da essa si lasci colpire».
Adamo, perché si nasconde? Buber risponde rilevando che:
«Adamo si nasconde per non dover rendere conto, per sfuggire alla responsabilità della propria vita. Così si nasconde ogni uomo, perché ogni uomo è Adamo. Proprio nascondendosi così e persistendo in questo nascondimento “davanti al volto di Dio”, l’uomo scivola sempre più profondamente, nella falsità: l’uomo, cercando di nascondersi a Dio, si nasconde a se stesso». ‘M. Buber, Il cammino dell’uomo.
Ascoltare la voce che domanda, che mette in questione, che interpella, è fondamentale per l’uomo al fine di cercare di capire sempre più e meglio se stesso. Ascoltare e ascoltarsi, domandare e domandarsi, sono momenti essenziali nella vita di un uomo che desidera conoscere e soprattutto conoscersi senza mai stancarsi, in un itinerario senza fine.
L’uomo che si ascolta ed ascolta profondamente non si definisce rinchiudendosi in se stesso o fuggendo da se stesso, ma al contrario si riconosce, si accoglie, in un confronto reale ed autentico in primo luogo con se stesso. Presupposto fondamentale per una autentica apertura verso gli altri.
L’arco dell’intera nostra esistenza umana è interessata da domande fondamentali che, naturalmente, assumono diverse connotazioni nelle varie fasi della vita e dei vissuti esistenziali. È l’uomo che domanda e per sua natura non finirà mai di domandare. L’uomo è il domandante, costitutivamente tale, che tuttavia si lascia domandare. E l’uomo capace di vivere la sua umanità in pienezza e quindi posto nelle condizioni di capire se stesso in cammino. Viene in mente il figliol prodigo della parabola il quale nel momento in cui rientra in se stesso si mette in cammino per tornare da suo Padre.
Rientrare in se stesso è già un mettersi in cammino. «Il ritorno decisivo a se stessi è nella vita dell’uomo l’inizio del cammino, il sempre nuovo inizio del cammino umano. Ma è decisivo, appunto, solo se conduce al cammino: esiste infatti anche un ritorno a se stessi sterile, che porta solo al tormento, alla disperazione e a ulteriori trappole».
Il cammino definisce in modo mirabile l’esistenza umana quando questa non si chiude in se stessa, ma si apre a sempre nuovi orizzonti, ad una rinvigorita speranza. Il non fermarsi nella vita comporta una sempre nuova ri-comprensione di se stessi, degli altri, del mondo, della vita, di Dio.
La vita si rivela in tal modo come un cammino di crescita. Crescere è accorgersi che non ci sono solo io ma c’è altro, soprattutto altro. E un andare continuamente incontro alla realtà. fl mondo esteriore che ci circonda – in particolare gli altri – non è un’appendice del mio ego. L’impatto e il confronto con la realtà e con gli altri non sempre sono piacevoli, ma sono fondamentali perché l’essere umano cresca umanamente. La crescita è questo sviluppo continuo che non è soltanto materiale o fisico, ma anche psichico e spirituale. Una crescita completa infatti concerne tutto l’uomo. L’uomo integrale diceva J. Maritain. La crescita dell’uomo non si ferma soltanto ad un aspetto, per quanto importante, della vita, ma interpella tutte le varie dimensioni di un’esistenza personale. La crescita è un fatto graduale e complesso, non è mai banale. Questa è la ragione per cui non basta una vita intera per armonizzare sensibilità, intelligenza, affettività, nell’esistenza di una persona. Il cammino di autenticità in una persona comporta fatica, discernimento, grande equilibrio interiore, per accordare continuamente sensi, mente e cuore.
Crescere implica certamente un progredire permanente, non per inoltrasi in un cammino senza meta, ma, con sforzo e fatica, vincere nostalgie e chiusure del proprio io, per iniziare sempre nuovamente il percorso della continua e incessante uscita da se stessi. Crescere è vivere un esodo continuo. Anche il tornare a se stessi del raccoglimento e della scoperta di sé non è in vista di una chiusura in se stessi, ma si apre sempre più verso l’inedito. Crescere è come una continua partenza verso un luogo sconosciuto dentro il quale l’uomo si inoltra e che desidera scoprire e conoscere sempre di più. E un abbandonare il proprio mondo per scoprirne un altro, altri. Aprirsi continuamente alla novità comporta un lasciare certezze, sicurezze, per avventurarsi verso una realtà che non è più sotto il proprio dominio e controllo. Una realtà che ci sfugge questa è la nostra vita! La vita come cammino è affrontare l’avventura e la scommessa della crescita. Il che comporta dover sempre fare i conti con la precarietà e la finitezza del nostro esistere, con le opacità, le regressioni, i conflitti del nostro inconscio. Questa è la ragione per cui occorre educarsi ad accogliere la nostra contingenza, nei suoi limiti, nelle sue inadeguatezze, nella sua complessità, ma anche nella sua bellezza ed amarla come atto prioritario per intraprendere il cammino della nostra crescita umana.
Il cammino è dunque un paradigma che rivela come l’uomo cresce verso la maturità. Crescere è aprirsi sempre più alla realtà, agli altri, al dono di sé, alla responsabilità. Crescere verso la maturità comporta un continuo passaggio dalla propria realizzazione alla responsabilità verso gli altri e per gli altri. La mia crescita è assunzione di responsabilità. L’uomo adulto infatti è colui il quale pennette ad altri di crescere e pone nelle condizioni perché altri possano crescere: l’adulto è tale perché fa crescere. Si passa così dal ricevere al dare nel cammino della vita.
«Uscire da sé. La persona è un’esistenza capace di staccarsi da se se stessa, spodestarsi, di decentrarsi per divenire disponibile agli altri. Per la tradizione personalista l’ascesa della rinuncia a se stessi è l’ascesa centrale della vita personale; soltanto colui che ha liberato in tal modo se stesso può liberare gli altri e il mondo. Gli antichi dicevano che bisognava combattere l’amor proprio: noi oggi lo chiamiamo egocentrismo, narcisismo, individualismo.
Comprendere. Cessare di pormi dal mio punto di vista per mettermi dal punto di vista degli altri. Ma non cercare me stesso nell’altro simile a me, né conoscere gli altri attraverso una dottrina generale, ma abbracciare la sua singolarità con la mia singolarità, in un atto di accettazione e in uno sforzo di fusione. Essere tutto per tutti, senza cessare di essere, e d’essere me stesso: perché c’è un modo di comprendere che equivale a non amar nulla e a non essere più nulla; dissoluzione negli altri, non comprensione degli altri.
Dare. La forza viva dello slancio personale non è rivendicazione, né lotta, ma generosità o gratuità, cioè, al limite, donazione senza speranza di ricambio. L’economia della persona è un’economia di dono, non di compensazione o di calcolo. La generosità dissolve l’opacità e annulla la solitudine del soggetto, anche quando non trova risposta. Essa fallisce soltanto davanti a certe ostilità più misteriose dell’interesse, e che sembrano dirette contro il disinteresse stesso.
Essere fedele. L’avventura della persona è avventura continua dalla nascita alla morte. La fedeltà alla persona, amore, amicizia sono dunque perfetti soltanto nella continuità. Questa continuità non è un di più, una ripetizione uniforme come quella della materia o della generalità logica, ma un risorgere continuo. La fedeltà personale è una fedeltà creatrice.
La persona umana cresce e matura nella misura in cui si apre sempre più all’orizzonte del dono. La vita come cammino è un’avventura, un rischio; è un impegno perché è un dono! Un dono che esige sempre un impegno e una collaborazione. Nel cammino della vita è sempre in gioco la libertà della persona e la sua maturazione. La maturità è autentica capacità di fare posto ad altro e quindi a non occupare il posto dell’altro, ma consegnare e tramandare ad altri ciò che si è, ciò che si ha. L’uomo non è l’artefice primo della propria esistenza, come se questa fosse a sua completa disposizione che egli domina e controlla assolutamente e a suo piacimento: la vita non è un suo possesso. Dentro questo quadro di riferimento la persona umana si scopre in cammino sempre. La crescita e la maturità si misurano esattamente dalla capacità che la persona umana ha di donare la propria vita, di offrirla agli altri nella circolarità del dono. Il dono infatti si dà nella gratuità e generosità del dono.
L’Europa, si è percepita in questi anni come una “fortezza” assediata, per cui il grosso dell’impegno in questo campo è stato quello di mettere in atto delle leggi, che chiudano al massimo le maglie dell’accoglienza dei flussi migratori. Nonostante tutti questi sforzi le persone sono continuate ad arivare, sfidando le difficoltà geografiche, ma soprattutto il grande muro di sbarramento per impedire il raggiungimento della loro meta.
«Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa» (Es 3,7-8).
Camminare, muta totalmente il ritmo di ogni cosa, è un movimento che non si fa solo con il corpo, si cammina con la totalità della propria storia: «Ogni cammino è come un viaggio in cui si impara a vedere tutto altrimenti. L’esistenza dei camminatori è segnata dall’estraneità.»
L’evangelista Luca, il teologo del cammino, introduce l’incontro tra Maria ed Elisabetta con il viaggio di Maria attraverso una regione montuosa della Giudea. Dopo l’annuncio della nascita di Gesù, Maria «si mise in cammino»
Gesù è “L’uomo che cammina”. Egli suscita movimento in chi lo incontra sin dal grembo materno, a soli dodici anni non ha paura di camminare per la sua strada: «Non sapevate che devo occuparmi delle cose del Padre mio?».
Nei vangeli la missione di Gesù è indicata come una via. L’evangelista Giovanni scrive che Gesù si definisce la via (Gv 7,6). Egli è vita maturata nel movimento e nelle soste solitarie (Gv 6,15), è la strada che fa conoscere il Padre (Gv 14,7) e rende possibile al credente stesso di compiere le sue opere (Gv 14,12). La via, cercata, indicata, invocata e attraversata dai padri e dalle madri dell’Antico Testamento, è in Gesù visibile nella pienezza dell’umanità (Gv 1,14).
«Per Luca l’azione salvifica di Dio si esprime attraverso un cammino che i protagonisti umani percorrono con modalità e tempi fissati da Dio».
La storia è epifania del cammino di Dio e l’uomo prepara la via (Is 40,3). Lo afferma Zaccaria nel Tempio: la tenerezza, la misericordia del Signore mostreranno un sole luminoso che conduce alla via della pace (Lc 1 ,79). «Una pace intesa come pienezza di vita che diventa storica soltanto quando l’uomo decide di incamminarsi verso di essa».
Il cammino di Gesù è fatto anche di sguardi: sguardo tra volti (Mc 10,21), sguardo compassionevole sulla folla (Mc 6,34), sguardo verso fuori per mettere a fuoco (Mc 8,25).
Gli uomini religiosi del tempo di Gesù (dottori, farisei e scribi) quando si accorgono che il popolo va verso di lui ( Gv 8,2) si mettono sulle sue tracce. Vogliono controllare quest’uomo che restituisce, di sabato, ad un uomo dalle mani rattrappite la capacità di relazionarsi (Mc 3,5), sottomette le forze oscure del male e offre nuove possibilità di leggere la storia (Gv 9,3). Ma il loro cuore è duro e, come irrigiditi dalla paura, lo vogliono eliminare (Mc 3,6; Gv 12,9), lo credono in balia del diavolo (Mc 3,22).
Questo Dio-Uomo che libera gli uomini persino dalla paura della morte li destabilizza: «Sei tu forse più grande del nostro padre Abramo che è morto?» (Gv 8,52). Il popolo va da lui per ascoltare il suo insegnamento (Gv 8,2), ma Egli compie nuovi esodi ed esce dai luoghi sacri per sfuggire alla lapidazione (Gv 8,59). Segnato dalla stessa incomprensione dei profeti della sua storia (Lc 4,24) e consegnato dalla folla ai padroni stranieri della sua terra, viene accusato come un uomo pericoloso: «Costui sobilla il popolo insegnando in tutta la Giudea, dopo aver cominciato dalla Galilea, fino a qui» (Lc 23,5).
Il cammino breve di Gesù sembra interrompersi con la fine ignominiosa fuori dalle mura della città santa.
Luca, teologo del cammino, ce lo presenta di nuovo sulla strada dell’uomo, accanto ai due di Emmaus: “Gesù camminava con loro” (Lc 24,15).
Di nuovo Gesù accompagna gli amici nella Parola e fa ardere il loro cuore (Lc 24,32): «E un nuovo Sinai: Ti ha fatto vedere il suo grande fuoco, e dal mezzo del fuoco tu hai ascoltato le sue parole (Dt 4,6)». Con l’invito a farsi delle domande — «non bisognava?» —‘ Gesù consegna agli uomini e alla storia un “altrove”: «Avvicinatisi al villaggio cui erano diretti, Gesù fece come se dovesse andare oltre» (Lc 24,28). Oltre l’angoscia di un presente che sembra rapinare l’uomo della speranza, oltre l’imperialismo dell’ingiustizia e della paura. Altrove: partendo dal vuoto di un sepolcro con la lampada accesa e il canto dell’attesa nata dalla promessa: «Si, vengo presto!» (Ap 22,20).
Direi che Dio lo si incontra mentre si cammina, si passeggia, lo si cerca e ci si lascia cercare da Lui. Sono due strade che si incontrano. Da una parte lo cerchiamo spinti da un istinto che nasce dal cuore. E poi, quando ci incontriamo, ci rendiamo conto che Lui ci stava già cercando, ci aveva preceduti».
E’ importante però sapere, se siamo soli in questo peregrinare, se vaghiamo in un deserto senza piste, o se calchiamo orme in sentieri già tracciati. E decisivo conoscere se sono previste soste, mete intermedie, possibilità di recupero. Soprattutto è fondamentale conoscere se c’è qualcuno a cui affidarci nella strada, qualcuno che già conosce la meta e le vie che vi conducono.
Una guida c’è. E’ la Parola, Cristo stesso è la meta. Addirittura anche la “Via”. Ma lui si manifesta a chi fa esperienza delle sue parole nella concretezza della vita quotidiana, delle scelte, degli orientamenti radicali che spesso la vita ci chiede. Per seguire Cristo bisogna ascoltarlo.
Però non agisce magicamente, ci vogliono delle disposizioni.
Questa parola di Dio, proprio perché rivolta e fa appello alla persona, come essere intelligente e libero, non fa violenza alla libertà della persona, né agisce in modo magico, cioè senza un nostro attivo coinvolgimento, ma richiede delle condizioni, delle disposizioni da parte nostra. E tutto questo è già stato messo in evidenza da Gesù stesso nella parabola da lui spiegata ai discepoli, quella del seminatore, dove il seme produce frutti differenti a seconda della qualità del terreno su cui cade. Quindi diventa molto importante il “come” si ascolta.
Quali possono essere queste disposizioni perché la parola possa risanarci, rinnovarci?
– Una prima disposizione è che l’ascolto non sia semplicemente esteriore, superficiale, ma anche interiore, profondo. Molte volte la parola entra da una parte e esce dall’altra, scivola via; si ha un ascolto superficiale quando può produrre qualche emozione momentanea, passeggera, ma non è assimilata, non è scesa dentro in modo che diventi adesione del mio cuore. Da qui un discernimento critico.
– Un’altra disposizione è che l’ascolto non sia semplicemente teorico, mentale, intellettuale, ma anche pratico, si traduca nella vita, diventi testimonianza coerente. Il pericolo di un ascolto a livello soltanto teorico è quello di un’adesione verbalistica, velleitaria; non basta ascoltare, direbbe 5. Giacomo, non è sufficiente conoscere la parola, bisogna anche viverla. San Giacomo dice: «Mettete in pratica la parola, non vi accontentate di ascoltarla ingannando voi stessi con falsi ragionamenti».
Un’altra disposizione è che sia un ascolto non selettivo, non riduttivo della parola, ma rispettoso della sua integrità, della sua purezza. Tante volte mutiliamo questa parola, accogliamo solo ciò che ci aggrada.
Nel “Credo in Dio” di Frei Betto c’è una espressione singolare: «Dio non è l’acqua che è cercata da chi ha sete, ma l’acqua che va in cerca di colui che è assetato». Allora la risposta si fa chiara. Noi cerchiamo perché siamo cercati. Dio ci cerca e ci spinge “fuori casa”, ci mette in cammino, ci rende inquieti, ci mette fuori dalle nostre sicurezze perché ci ama e “sa” ciò che giova a noi. Sa che siamo inquieti, viandanti per natura, nomadi perché radicalmente assetati di giustizia, affamati di bellezza e di unità profonda, bisognosi di essere sempre rigenerati, e sempre da nuove acque.
Nel cammino c’è la notte ed il giorno, la consolazione e la desolazione, la tentazione e la splendida visione del Cristo trasfigurato. Ci sono i giorni in cui si va di grazia in grazia, ed i giorni in cui una grande disperazione si può rivelare via per una nuova consapevolezza. E ci sono anche i giorni in cui si può dubitare dell’esistenza del sole ma non di quella pace che ci viene dall’avere accolto un moto gratuito e disinteressato del nostro amore.
Mai da soli. Se il camminare insieme è faticoso perché comporta preghiera, ricerca, tempo, messa in discussione della propria storia, tentativi, fuga dal dogmatismo a tutti i livelli, rinunzia all’accaparramento dello Spirito ad uso individuale, è anche vero che la fatica del cercare e del camminare non ci può trovare in un perpetuo deserto. Nessuno di noi può andare verso il “suo” Dio (o verso l’idolo che s’è forgiato?) perché uno è il Padre, e si chiama “Padre-nostro e Dio-nostro”, a cui ogni giorno chiediamo “il nostro-pane-quotidiano”.
Abbiamo buone speranze che ricominci ad avere diritto di cittadinanza tra noi la fragilità di un cammino incerto, penoso anche, ma già deciso in cuore. E speriamo che riabbia credito anche l’accoglienza della sosta, l’attesa di quei tempi migliori che una volta venivano chiamati “condizioni storiche”. Virtù queste che non implicano affatto una rinuncia a ciò che si intravede come luce, ma la coscienza del limite personale ed ecclesiale, e la voglia irrinunciabile di salvarci insieme.
Del resto solo insieme sfuggiamo alla vaga e dolorosa impressione di solitudine che, come credenti, abbiamo. Questa solitudine la sosteniamo. Ma se anche in una cominità in cammino ci si sente come il “pastore errante” di Leopardi nella steppa asiatica, capaci solo di interrogare una luna a cui delle domande umane “non cale”, allora diventa davvero arduo nutrire una fede autentica. E si può cedere alla tentazione di una vita cristiana scialba.
«Dalla crisi odierna — diceva il teologo J. Ratzinger — emergerà una Chiesa che avrà perso molto. Diverrà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi. Non sarà più in grado di abitare gli edifici che ha costruito in tempi di prosperità. Con il diminuire dei suoi fedeli, perderà anche gran parte dei privilegi sociali. Ripartirà da piccoli gruppi, da movimenti e da una minoranza che rimetterà la Fede al centro dell’esperienza. Sarà una Chiesa più spirituale, che non si arrogherà un mandato politico flirtando ora con la Sinistra e ora con la Destra. Sarà povera e diventerà la Chiesa degli indigenti. Allora la gente vedrà quel piccolo gregge di credenti come qualcosa di totalmente nuovo: lo scopriranno come una speranza per se stessi, la risposta che avevano sempre cercato in segreto».
‘Joseph Ratzinger, 24 dicembre 1969: conclusione del ciclo di lezioni
E arriva il giorno del ritorno in comunità. Così si narra di Francesco d’Assisi, il quale desiderando di rivedere tutti i suoi frati che aveva inviato a due a due per le vie del mondo, «pregò il Signore, il quale raccoglie i figli dispersi d’israele (Is 11 ,l 2), che si degnasse nella sua misericordia di riunirli presto. E tosto, secondo il suo desiderio e senza che alcuno li chiamasse, si ritrovarono insieme e resero grazie a Dio. Prendendo il cibo insieme.