01 Set LITURGIA 4
La liturgia e il tempio : volto del creato come spazio gratuito
La Grecia è la terra degli dèi. L’uomo greco ha fatto della propria esperienza una soglia attraverso la quale il mondo diventa spirito e lo spirito, il divino, l’invisibile entra nel mondo.
I monti eccelsi, i boschi ombrosi, l’ amenità dei prati, l’oscurità delle grotte e le sorgenti che sgorgano dalle profondità della terra sono abitati da spiriti divini. Se ne respira il profumo, se ne scorge la luminosità, se ne ode la voce, se ne percepisce la danza e si subisce il rapimento del loro suono incantatore.
Un luogo sacro, però, non nasce da una scelta umana, ma semplicemente si manifesta. II sacro epifanico, infatti, implica una teofania primordiale, che consacra quello spazio, trasformandolo in fonte di forza e di sacralità, e ne assicura il perdurare.
Per questo, il “tempio” – che nella sua etimologia deriva dal verbo greco témno, “tagliare” viene “separato” dallo spazio profano circostante da un recinto (témenos). Esso ha non solo lo scopo di segnalare la presenza della ierofania, perché l’uomo possa entrare in contatto con quella forza e quella sacralità, ma ha anche la funzione di tutelare colui che rischia di avventurarsi in modo inconsapevole in quel luogo, poiché il sacro è sempre pericoloso ed esige una preparazione.
Anche nel mondo romano vale questa regola.
Il termine latino sanctus, infatti, sembra derivare proprio dal verbo sancire, che significa delimitare, porre una separazione, un confine fra ciò che è sacro e ciò che è profano, fra il luogo recintato – il tempio (fanum) – e ciò che invece gli è esterno (profanum).
Il sacro, nella sua forma più diffusa, consiste dunque anzitutto in una sfera separata della realtà, per mezzo della quale il divino viene a contatto con il mondo e con l’uomo. Alcuni luoghi, spazi, tempi e persone vengono così sottratti alla mondanità per diventare sacri, cioè portatori del divino.
La tradizione biblica è invece unanime nell’ affermare che Dio si rende presente non tanto in forma epifanica ma rivelativa.
Anzitutto, Dio è creatore e il concetto di creazione suppone che egli sia altro dal mondo. Dio è dunque “trascendente” rispetto al mondo, mentre il mondo è sua creatura. E questa distinzione fra Dio e la creazione porta come conseguenza una sana desacralizzazione del cosmo.
Anche l’uomo è creatura e, se Dio entra in contatto con lui, a differenza di quanto accadeva nelle religioni pagane, lo fa non tanto mostrandosi, ma comunicandogli la sua parola. Così, mentre nel sacro epifanico il divino si impone con lo splendore abbagliante della visione, nel sacro rivelativo Dio non si impone, ma può essere accolto solo nella fede.
La percezione del mistero è basilare nell’ esperire il sacro, che appare come ciò che sconcerta la ragione, lascia senza parole e sconvolge, ridestando stati emotivi come la meraviglia e lo stupore.
Anche la Scrittura riflette questa convinzione, ad esempio quando parla dell’ esperienza di Mosè.
La memoria della liturgia del tempio evoca il cuore del deserto: l’autocomunicazione di JHWH sul monte Sinai (Es 33-34). TI racconto inizia con il drammatico abbandono di JHWH: «Ma io non verrò in mezzo a te» (Es 33,3). Questo movimento di allontanamento suscitò i lamenti del popolo e l’intervento di Mosè (Es 33,12ss.). Mosè, di conseguenza, prega implorando JHWH di avere compassione per il suo popolo (Es 33,13-16). Nell’interno di questo contesto drammatico la promessa di JHWH spicca in forte rilievo: «Farò passare davanti a te tutto il mio splendore e proclamerò il mio nome: JHWH, davanti a te. Farò grazia a chi vorrò far grazia e avrò misericordia di chi vorrò aver misericordia» (Es 33,19). Successivamente questa promessa viene revocata: «Allora il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome di ]HWH.
JHWH passò davanti a lui proclamando: ‘JHWH, JHWH!’» (Es 34,5-6). Il contesto in cui avveniva la proclamazione del Nome è cultuale. JHWH, proclamando il suo Nome, si rende presente alla prima persona singolare come una forma eminente di auto-impegno (Es34,10), una attuazione cultuale di «lo sono: io ci sono» [«lo sono colui che sono»] (Es 3,14).
Sull’Oreb, l’angelo del Signore appare a Mosè in una fiamma di fuoco in mezzo a un roveto che arde senza consumarsi (Esodo 3, 12). Attratto da quello spettacolo, Mosè decide di avvicinarsi per vedere. Il mistero che si rivela nel fuoco attrae Mosè, lo abbaglia e lo rapisce. Il Signore, però, vedendolo, lo chiama dal roveto e gli dice: «Mosè, Mosè!». Questi risponde: «Eccomi!». Poi aggiunge: «Non avvicinarti!».
Il divino che irrompe nella vita dell’uomo e si rivela nell’inattingibilità del fuoco è al tempo stesso tremendo e fascinoso.
L’imprescindibile forza attrattiva che emana da quella fiamma (fascinosa) si intreccia infatti con la spinta repulsiva generata dal tremendo: «Non avvicinarti!».
Allora «Mosè si velò il viso, perché aveva paura di guardare verso Dio» (Esodo 3,6). Inoltre, l’incontro con il sacro non è mai immediato, ma richiede una preparazione di riti e prescrizioni di cui anche il testo biblico conserva memoria. «Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa!» (Esodo 3, 5). Mosè può accedere al luogo sacro solo a piedi nudi.
Ciò che però caratterizza la rivelazione del Dio biblico, rispetto al mondo greco, è chel’uomo non sta davanti a lui in modo passivo, come chi assiste a uno spettacolo; ma è coinvolto nella comunicazione, quale destinatario di ‘unii parola che Dio gli rivolge:
“Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido […]. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese […J. Ora va’! lo ti mando dal faraone.”
II luogo della teofania è «una terra santa». Lì si può continuare a incontrare Dio. Sull’Oreb Mosè incontrerà ancora Dio (Esodo 19; 24; 33; 34;) e lì lo incontrerà anche Elia (1Re 19). Ancora sul monte, a Mosè viene mostrato il modello per la costruzione del santuario (Esodo25), nel quale prenderà dimora la “gloria” del Signore, che era apparsa agli occhi degli israeliti come fuoco divorante sulla cima della montagna (Esodo 40, 34).
La struttura del cosmo, che è dimora di Dio, funge da prototipo non solo per la costruzione del santuario di Israele4, ma di ogni edificio sacro, anche di quello cristiano. Anche quest’ultimo, infatti, ricalca la struttura del cosmo, grazie all’incontro di due elementi primordiali, il quadrato e il cerchio.
Il quadrato – o il rettangolo, che non è altro che una variante del quadrato e può diventare un cubo o un parallelepipedo – rappresenta la vita sulla terra ed esprime la quadripartizione dello spazio terrestre: i quattro punti cardinali, le quattro stagioni, ecc.; mentre il cerchio o la sfera rappresenta il mondo celeste della perfezione divina. Questo rapporto del cerchio con il quadrato o della sfera con il cubo è realmente il fondamento dell’ architettura sacra, anche di quella cristiana.
Massimo il Confessore, celebrando la magnifica costruzione di Santa Sofia a Edessa, cantava:
È cosa davvero mirabile che, nella sua piccolezza, questo tempio sia simile al cosmo. La sua copertura è tesa come i cicli, ornata da mosaici d’oro come il firmamento di stelle luminose. La sua cupola elevata è paragonabile al cielo dei cieli e i suoi archi all’arcobaleno che poggia sulle nubi.
Esiste dunque una corrispondenza simbolica tra spazio cosmico e spazio liturgico
Il ‘climax’ del Salmo 48 è costituito dall’esclamazione: «Noi eguagliamo, o Dio, la tua misericordia dentro il tuo tempio» (v. 10). Vale a dire: Noi incarniamo la tua misericordia dentro il tuo tempio.
Ossia: il monte santo irradia la tua potenza, le alte mura esprimono la tua forza, e i contrafforti lo sgomento reverenziale che susciti (vv. 2-9), ma non possono fare quello che fa il tuo popolo: accogliere la tua benevolenza nella parte più intima del suo cuore. La benevolenza di Dio può trasformare l’essenza più intima del popolo in modo tale che esso gli somigli nella sua bontà.
È questa interiorizzazione a costituire l’interno del suo tempio: un cuore che si lascia trasformare dalla sua bontà a tal punto che esso diventi ‘simile’ a quella bontà.
La somiglianza più intima che i pellegrini raggiungono nel tempio è la proclamazione del Nome ‘JHWH’. Quando il popolo nel tempio grida «Sii là!», esso è come l’Onnipotente che si autocomunica nella sua perfetta benevolenza: «lo ci sarò davanti a te!» [cioè, «sarò la tua guida»].
Uscendo da questo intimo processo di trasformazione ‘nella dimora divina’, i partecipanti si muovono all’ esterno in una processione attorno alle mura della città per assicurarsi la sua potente presenza tra loro, una presenza che sostiene il popolo in eterno, sì, anche oltre la morte stessa.