Guariento Mario | IL PADRE NOSTRO IN MATTEO E IN LUCA – PARTE 1
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IL PADRE NOSTRO IN MATTEO E IN LUCA – PARTE 1

07 Set IL PADRE NOSTRO IN MATTEO E IN LUCA – PARTE 1

IL PADRE NOSTRO IN MATTEO E IN LUCA – PARTE 1

Questa preghiera che si trova al cap. VI di Matteo e al cap. XI di Luca, ha esercitato sempre un fascino sugli uomini, in particolare sui credenti, che cercano di capire il senso della propria vita davanti a Dio.

Ricerche approfondite possono dimostrare che Luca e Matteo hanno trovato la preghiera in una comune raccolta di discorsi già tradotti in lingua greca, la cosiddetta «fonte dei discorsi», che i due evangelisti hanno ampiamente usato, rielaborandola, per i loro vangeli; e qui si può dimostrare che sia Luca che Matteo hanno adattato agli usi della comunità loro noti la stesura trovata nel documento. Da questo si può dedur­re che: «Ciò che Gesù insegna e ciò che il suo santo Spirito ci trasmette come parola di Dio, è sempre in primo luogo spirito e soltanto in un secondo momento lettera, è sem­pre innanzitutto contenuto, e soltanto poi formula. Quanto questo dovrà essere vero in tutto il resto, se è vero anche in questo caso, in cui Gesù ha riassunto per noi in una vera formula lo spirito della preghiera». (Così M. Zerwick, Leben aus Gottes Wort, Ba­den 1956,37).

Realmente penso che la preghiera rivolta al «Padre» sia la sintesi e il cuore del Vangelo, e ci tracci anche quella che è la spiritualità, lo stile di vita, della se­quela del Cristo; una spiritualità ridotta alla sua es­senza e sostanza nel rapporto con il Padre che ci aiuta a capire il senso della vita nella duplice dimen­sione: quella del peccato e quella della minaccia ulti­ma (ossia della morte o dell’assurdità del vivere).

Pregare dunque con il «Padre nostro» è mettersi alla sequela del Cristo, imparando da lui il suo modo di vivere, di scegliere e anche il modo di affrontare la morte; quali sono le ragioni profonde, le radici della propria esistenza.

Nel Vangelo di Matteo, il «Padre nostro» si trova all’ inizio del primo discorso; nel Vangelo di Luca si trova lungo la strada che porta Gesù a morire; nel Vangelo di Giovanninon c’è il «Padre nostro», ma una preghiera che ha il contenuto della nostra ora­zione tradizionale come invocazione al Padre.

E’ la preghiera di Gesù conosciuta come «preghiera sacer­dotale» alla vigilia della morte, la sera dell’arresto; la preghiera nella quale Gesù traccia il suo testa­mento spirituale e dà l’interpretazione ultima del suo morire: quindi possiamo dire che la preghiera del «Padre nostro» sta all’inizio, al centro e al termi­ne del Vangelo.

Il luogo dove è nato questo modo di rivolgersi a Dio, come Padre che attua il suo regno, compie la sua volontà e alla fine ci libera dal male, è il Getse­mani.

Marco, l’unico degli evangelisti che non riporta una preghiera di Gesù come noi la conosciamo, mette sulle labbra di Gesù questa invocazione: «Padre ­Abbà», proprio la sera dell’arresto. Quello è il mo­mento ideale per capire l’invocazione rivolta a Dio: prima di tutti da Gesù e poi da coloro che condivi­dono il suo destino, la sua scelta di essere fedele fi­no alla morte, riuscendo ad invocare Dio anche in quella situazione.

Vorrei mostrarvi, con un piccolo confronto con il Vangelo di Marco che non riporta il «Padre nostro» e poi con Giovanni, come in realtà Gesù non ha in­segnato delle formule, ma ha insegnato un modo di stare davanti a Dio, un modo di stare con gli altri e di vivere nel mondo: da questa situazione di rappor­to con Dio e con gli altri nel mondo nasce la pre­ghiera del Padre nostro.

Pregare è un modo di vivere, più che di dire cose o formule; anche se la vita umana ha come caratteri­stica il linguaggio, la pa­rola: questo vivere profondo si esprime in un parlare a Dio, in un rivolgersi a Lui con alcune espressioni. Queste possono essere ridotte all’essenziale e posso­no anche variare.

I primi discepoli ci rivelano questa libertà nel ritoc­care la tradizione che viene da Gesù.

In Marco stesso troviamo alcuni frammenti della tradizione del «Padre nostro».

In Marco 11, 25 c’è un indizio interessante per ca­pire come in realtà Cristo non ha insegnato il «Pa­dre nostro», ma ha creato delle condizioni per poter­lo dire, perché questo potesse maturare e sbocciare nella comunità.

Marco, in una istruzione per una preghiera efficace e perseverante al Padre, dice cosl: “Quando vi met­tete a pregare se avete qualcosa contro qualcuno, perdo­nate/o, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi i vostri peccati”.

Interessante questa istruzione che è una specie di commento del «Padre nostro». Tutto il discorso del monte di Matteo non è altro che un commento al «Padre nostro».

È interessante notare che all’interno di questa pre­ghiera è posta anche la riconciliazione fraterna (che è poi la novità evangelica), intesa come la condizio­ne ideale per poter rivolgersi a Dio come Padre con la certezza di essere ascoltati, esauditi. Non si tratta tanto dell’esaudimento nel senso magico, ma di esse­re accolti come figli perdonati.

E’ questo il grande dono della preghiera: essere trasformati nella rela­zione con Dio. Questa trasformazione si prolunga poi nei rapporti con gli altri, cioè il perdono che noi invochiamo suppone già l’attitudine aperta ad amare e, come conseguenza, anche a perdonare.

C’è un altro brano di Marco in cui si può riconosce­re l’origine del «Padre nostro»: alla vigilia della mor­te di Gesù, la sera dell’ arresto. Marco, presentando la preghiera di Gesù nell’orto del Getsemani, formula la preghiera di Gesù (riportata anche da Matteo e Luca) con l’invocazione in aramaico: Abbà. I cristiani che parlavano il greco pregano come Gesù. Questa è la radice storica della preghiera cristiana.

Mc. 14, 33-34: «Prese con sé Pietro, Giacomo e Gio­vanni e cominciò a sentire paura ed angoscia. Gesù dis­se loro: “La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate”». E la tragedia dell’esperienza della morte come separazione da Dio e fallimento del pro­getto storico. Gesù vive l’angoscia della sua morte in tutta la sua dimensione senza recitare e senza particolari assistenze.

Mc. 14, 35-36: «Poi, andato un po’ innanzi, si gettò a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse da lui quell’ora. E diceva: “Abbà, Padre!”».

Abbà è la paro­la aramaica con la quale i bimbi in casa chiamavano «papà»; mentre fuori casa il figlio grande quando in­contrava il padre per la strada o nella sinagoga lo chiamava «Signore». In casa anche il figlio sposato si rivolge a suo papà con Abbà. Questo è il senso della coscienza ultima e profonda di Gesù.

Gesù si rivolge a Dio con questa formula familiare, mentre gli Ebrei non usano il termine Abbà quando si rivolgono a Dio, anche se lo chiamano «Padre». I cristiani hanno tradotto la parola Abbà con «Padre». Mc. 14, 36: «Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu». Qui abbiamo il contenuto del «Padre no­stro»: infatti si può aggiungere «sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà». Mc. 14, 37-38: «Tornato indietro, li trovò addormen­tati e disse a Pietro: “Simone dormi? Non sei riuscito a vegliare un’ora sola? Vegliate e pregate per non entrare in  tentazione; lo spirito è pronto, ma la carne è debole”».

Riuscire a chiamare Dio Abbà-papà nel momento in cui la prospettiva è quella di una morte infamante e dolorosa significa accettare il suo progetto, restare uniti a Lui nonostante la prospettiva della morte. Cristo fa poi un invito ai discepoli a non en­trare in crisi di fronte a questa tragedia che avrebbe eliminato l’immagine di Dio trionfatore e potente. Questo è il contenuto essenziale del «Padre nostro».

L’altro è quello del perdono: perdonare prima di mettersi a pregare se si ha qualcosa contro qualcuno. Dunque Marco ci ha indicato non solo le situazioni dalle quali è nato il «Padre nostro», ma anche la condizione nella quale i discepoli hanno capito cosa vuoI dire pregare il Padre. E quella in cui Gesù di fronte alla sua morte accetta di restare fedele a Dio e vince la tentazione, la crisi, il dramma finale. Quindi più che vedere nel «Padre nostro» una formula è bene capire la situazione dalla quale è nato.