22 Mar 20 MARZO 2022
TERZA DOMENICA DI QUARESIMA
Luca 13, 1-9
Gesù in questo testo lucano spezza la connessione di causa-effetto tra morte e peccato; tra morte e colpa. I morti non sono colpevoli, perché Dio non punisce i suoi figli che ama con malattie e morte. Bisogna leggere i fatti come sono. Ognuno di noi è sotto il segno della provvisorietà costitutiva del nostro stesso vivere e questo dovrebbe spingerci a vivere ciò che stiamo vivendo con intensità e senza perdita di tempo. Riflettere sulla morte dovrebbe essere un’occasione per mettere a fuoco i motivi che animano la vita e le scelte. Gesù invita alla conversione, cioè alla ristrutturazione del pensiero: quasi un andare oltre il pensiero per scoprire una dimensione «altra». L’invito alla penitenza che Gesù fa nel vangelo di oggi partendo da due fatti di cronaca non è un invito a gesti penitenziali, ma della «Penitenza», che significa accettare la misura della morte che è presente in ogni avvenimento, in ogni persona, in ogni progetto fino a superare i confini della propria progettualità per immergersi nel progetto di Dio e farlo diventare proprio. Fare penitenza per Gesù significa accogliere la volontà del Padre come dimensione della propria vita e della propria religiosità, altrimenti si avrà una religione senza Dio e una vita senza prospettiva perché, se non si accetta la morte, sarà questa a dominare la vita.
Paradossalmente, accettare la morte di ogni giorno significa svuotare la morte del senso distruttivo che ha in sé e colmarla del senso di pienezza che il progetto del Regno comporta. È qui il mistero della croce. Se siamo in grado di stare ai suoi piedi possiamo affrontare la vita fino alla morte che non è più l’ultima parola, ma quello che è: un momento della vita. Tutto ciò significa che in ogni istante dobbiamo cercare il senso di ciò che viviamo. La parabola del fico è un esempio con cui Gesù spiega tutto questo nel contesto della dimensione di attesa che è proprio della natura umana e che l’evangelista Luca applica al Regno finale. Probabilmente la parabola fu pronunciata all’inizio della vita pubblica nell’ambito della predicazione iniziale, ma ben presto fu estrapolata dal suo contesto originario per essere applicata al Regno nella sua globalità.
Nel brano odierno di Luca noi leggiamo la traduzione non corretta della Bibbia della Cei che trae in inganno; essa traduce: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò». Il testo greco invece dice: «Uno aveva un fico piantato nella sua vigna e venne cercando frutto in esso e non ne trovò». La differenza di traduzione è tra «albero di fico» e «un fico» che a occhi superficiali possono apparire uguali o almeno simili, mentre la differenza è grande. Un «albero di fico» è un albero qualsiasi senza alcuna connotazione etica; al contrario «un fico piantato nella vigna» si riferisce a Israele citato due volte. Il «fico» è immagine di Israele come lo è la «vigna» (Os 9,10; Ger 8, 4-13). Nel profeta Geremìa il riferimento è chiaro e inequivocabile: «non c’è più uva sulla vite né fichi sul fico, anche le foglie sono avvizzite» (Ger 8,13).
Gesù, in missione a nome del Padre, viene a cercare i frutti di giustizia in Israele, ma non trova nemmeno foglie avvizzite. Ciononostante concede un tempo supplementare, «l’anno di grazia», per dare la possibilità a Israele di riprendere la via del deserto, la via di Osea, per ritrovare il Dio dell’amore (cap.2). Il tempo concesso al fico è un avvertimento: c’è poco tempo e bisogna impegnarlo tutto e fino in fondo. Le occasioni nella vita e nella grazia non si ripetono: bisogna coglierle al volo se si vuole viverla fino all’ultima goccia. L’alternativa è vivacchiare, ovvero far finta di vivere in attesa della morte come silenzio assoluto. Il riferimento ai «tre anni» senza frutto indica un tempo completo: Israele ha avuto il tempo necessario, ma non è stato sufficiente. Ora è tempo di scelte radicali, non c’è spazio per tergiversare. Concede però ancora un’ultima occasione, forse quella decisiva.
Interessante la funzione del vignaiolo che supplica ancora un tempo di dilazione. Il giusto, la persona credente, è colui che non gode del male del mondo che pure è visibile e grande, ma si pone davanti a Dio e fa scudo con la sua stessa vita per impetrare ancora «l’anno di grazia del Signore» (Lc 4,19). Il cristiano non si limita solo alla testimonianza, ma impegna la sua vita perché Dio conceda a tutte le persone un’opportunità di discernimento e di conversione perché nulla vada perduto: «E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno» (Gv 6,39). Ogni giorno è buono per portare frutto gustoso e vivace. Ogni giorno preghiamo che il Padre con noi abbia pazienza e ci lasci tempo ancora per convertirci, Tempo per essere annaffiati e irrigati nel cuore dallo Spirito Santo, liberati da sterpaglie e rovi dal Figlio Gesù per portare un buon frutto di luce e di pace. L’Eucaristia è dono di grazia che ogni settimana il Signore ci concede per prendere consapevolezza della morte nella prospettiva della vita. Ascoltiamo e mangiamo per imparare a morire in vista della vita risorta. Il pane è fragile e la parola è tenue, segni di Dio, ma anche della vita nella sua esilità. Possiamo assaporarla se ci immergiamo nella storia per incontrare il Dio di Gesù Cristo nell’incontro con i fratelli, le sorelle e gli avvenimenti che li e ci riguardano. Veramente vivere è morire e morire è vivere.