17 Giu FESTA DEL CORPO SIGNORE. LUCA 9, 11-17
La festa del Corpo del Signore è un ulteriore prolungamento della Pasqua che abbiamo vissuto in una notte di veglia attorno a un banchetto, consumato «in fretta e con i fianchi cinti» segno e modello di liberazione. Ora siamo seduti attorno al banchetto della alleanza nuova, senza più fretta, ma sempre pronti a ripartire per essere segno e strumento di ogni liberazione in favore di ogni singolo individuo e popolo. È il banchetto che anticipa quello finale della fine della storia. Dal banchetto al banchetto: è questa la dimensione storica della Chiesa pellegrina che di Eucaristia in Eucaristia cammina verso la Gerusalemme celeste. Il banchetto eucaristico è il «memoriale» della consegna a noi del «mistero pasquale» nel sacramento «fonte e culmine» della Chiesa e anticipo del banchetto escatologico alla fine dei tempi. Oggi operiamo un passaggio: dal simbolo alla realtà e prendiamo coscienza che il banchetto intorno al quale siamo convocati come invitati è partecipazione diretta e attiva alla comunione con il Signore che mette nel «piatto» la sua stessa vita come premessa e dono con chiunque la voglia conoscere e condividere. Chi, infatti, si accosta a questo «cibo», a sua volta, è chiamato a coinvolgersi e a compromettersi. Proviamo a credere sul serio: qui c’è il cuore della chiesa, il baricentro del mondo, della storia; qui è il passaggio all’eterno. Ed è solo silenzio. Un nulla di ostia. Noi parliamo e parliamo, e ci agitiamo; e organizziamo chiasso e fracasso intorno al nome di Cristo eucaristia e a questo sacramento che è il sacramento del silenzio, corrispondente al silenzio infinito di Dio; e coltiviamo devozioni a non finire. E Cristo che non dice mai nulla: quest’ostia che spezzi e non reagisce. Mentre bisognerebbe vederla sanguinare, come sanguinava l’eucaristia del vescovo Oscar Romero; fino al punto da essere lui ucciso con il calice in mano, dopo che aveva appena detto: « In questo calice c’è del vino che attende di farsi sangue ». Oscar Romero, vescovo fatto popolo, com’erano le tue messe? Quelle tue eucaristie, in quella cattedrale che esplodeva di canti di tutto un popolo che ogni domenica conveniva a celebrare Cristo e i suoi morti, per fare corpo con Lui, il Risorto. Fra i canti di un popolo che esplodeva di gioia, pur avendo addosso la morte, si evocavano vivi e morti: in quella sola realtà che era il punto più alto della loro vita, appunto l’eucaristia. E noi invece che celebriamo quasi in uno stato d’evasione dalle nostre responsabilità esistenziali, siano individuali che sociali; noi che andiamo a celebrare, a volte, perché non sappiamo che fare, o perché non vogliamo impegnarci. Esattamente il contrario di ciò che l’eucaristia significa. Queste nostre eucaristie, spesso così asettiche, e sterilizzate! Oppure eucaristie di lusso, che non significano nulla. E così non succede mai nulla: nessuno di noi che viene ucciso. Mentre celebriamo l’Ucciso da tutto il mondo, la Vittima che continua a essere uccisa. Pur sapendo che la stessa teologia dice che « nulla è così eversivo nella storia del mondo, quanto celebrare l’eucaristia ». Questo fare memoria, cioè vivere la passione, morte e risurrezione di Cristo! Come dire che la causa dell’uomo continua e nessuno la può fermare. Siamo noi, ora, i discepoli raccolti attorno a te, Gesù, chiamati ad amare non per amore di Dio ma con l’amore di Dio, con quella profondità, con quella pienezza, con quella disinteressata tenerezza con cui Dio ci ama. La coscienza della nostra piccolezza di fronte a questa chiamata ci fa patire per l’inadeguatezza della nostra risposta. Doveva essere una sera di memorie intense e commoventi perché proprio in questa cena preparata a condividere quella meravigliosa liturgia di memorie e di affetti che Gesù fa appello alla memoria con un gesto sorprendente, invenzione meravigliosa della tenerezza di Dio, memoriale della liberazione passata e di quella futura; l’eucaristia viene messa ora nelle nostre mani: «Prendete e mangiatene tutti: questo è il mio corpo». «Prendetene e bevetene tutti: questo è il mio sangue… Fate questo in memoria di me». Per non perdere la memoria. Consegnandoci questo dono Gesù vuole dire a ciascuno di noi: «Ricordati che non sei mai abbandonato a te stesso. Questo è il pane per la tua fame, per la stanchezza dei tuoi passi, per le tue paure di fronte al futuro. Perché questo pane sono io con il mio amore, il mio perdono, la mia fiducia, così da attraversare insieme ogni situazione di morte». Ti chiediamo che il nostro cuore sia aperto e grande per accogliere questo tuo immenso dono. Deve nascere, oggi, una profonda gratitudine: una gratitudine che salga dal cuore, che conosca un poco almeno di commozione, che ci porti a curvarci, come ha fatto un discepolo quella sera, sul petto di Gesù. Con il cuore inondato di mistero e di umiltà celebriamo l’eucaristia come l’ha vissuta Gesù come dono pervaso di gratitudine, di amicizia e di perdono. Siamo chiamati ad essere pane gli uni per gli altri, a diventare presenze umili, benefiche, buone, che conoscono il sapore della condivisione, che custodiscono la certezza che ogni atto di donazione è principio di risurrezione. Perché la vita non si chiude mai, Signore.