Guariento Mario | Domenica XXVIII. Luca 17,11-19
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Domenica XXVIII. Luca 17,11-19

06 Ott Domenica XXVIII. Luca 17,11-19

Domenica XXVII. Luca 17, 5-10

La gratuità è l’insegnamento più importante della liturgia di oggi. La gratuità dovrebbe segnare e caratterizzare ogni azione cristiana e ogni respiro di chi crede.  Se invece entriamo in una logica di mercato, allora penseremo di poter comperare tutto, anche Dio, credendo così di avere diritto a tutto ciò che vogliamo. Le chiese, da luogo trasparente di gratuità, rischiano di essere stazioni dove qualcuno vende e qualche altro compra la quantità di Dio che gli serve. La nostra fede langue quando non abbiamo imparato che credere è possibile: basta abituarsi a saper ricevere, perché Dio non accetta di essere pagato, ma chiede solo di essere ricevuto.                 La gratuità ha due caratteristiche: esprime l’interesse per la persona cui si rivolge e manifesta l’affabilità di chi dona gratuità. Un gesto gratuito è sempre un gesto di amore perché pone al centro della propria attenzione la persona dell’altro e lo rispetta nel suo essere e nella sua libertà. Agire gratuitamente oggi è una sfida, in una cultura che tutto trasforma in «mercato». Si è arrivati perfino a mortificare la disponibilità interiore che animava il volontariato, trasformato ormai in un impiego fittizio retribuito e precario. Non temiamo di dire che è morta «la civiltà del dono», sacrificata sull’altare del profitto secondo la perversa logica che tutto deve avere un prezzo, anche le coscienze, anche le persone.  Gesù prosegue il suo viaggio verso Gerusalemme. Egli sa da dove parte e sa esattamente dove deve e vuole arrivare: la sua mèta è la città di Dio, dove compirà la sua volontà e quella degli uomini. Qui, Gesù, al culmine della sua esistenza e del suo percorso di vita, sceglierà di offrire              se stesso per vivere il senso pieno della sua vita. Egli sa ciò che vuole e oggi, nella liturgia, ci insegna come dobbiamo essere per vivere come lui il comandamento dell’amore gratuito. Nella Bibbia la lebbra è simbolo del peccato, per cui la guarigione di dieci lebbrosi ha un significato più profondo: essa è segno della guarigione della persona, salvata gratuitamente per grazia e non per merito. Nessuno può essere così lebbroso da dire: per me non c’è speranza, perché proprio in quel momento scoprirà che, qualora non avesse speranza, è ancora più privilegiato dal Dio che salva, come il figlio del «Padre che fu madre», come il povero Lazzaro, come il cieco, come cioè coloro che appartengono alla categoria di chi è e si sente perduto senza possibilità di vita. A loro Gesù dice anche oggi: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori perché si convertano» . Nove dei guariti sono credenti e uno pagano. I nove credenti ricevono la guarigione come un atto dovuto e continuano per la loro strada. Solo il pagano, un samaritano, una volta guarito, «sente» che deve tornare indietro a ringraziare. I nove osservavano la Legge, la morale e la liturgia con tutte le prescrizioni del caso, ma sono prigionieri della loro stessa religiosità che impedisce loro di vedere il volto di Dio. Non sanno esprimere sentimenti, sanno dire parole, rosari, sanno fare processioni, ma non sanno cosa sia l’amore. Essi sono i guardiani della religione del dovere, mai dell’alleanza dell’amore. Il pagano, invece, che è estraneo alla religione d’Israele, e, quindi è ignaro dei riti e delle convenzioni della religiosità ebraica, sa cogliere l’avvenimento e lo esprime con un atto di fede pura: torna per ringraziare. Il samaritano ritorna sui suoi passi per «incontrare» colui che lo ha guarito: «Si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo». Nella parabola del figlio prodigo è il padre che «si gettò» sul figlio, mentre nel racconto odierno è il Samaritano che «si gettò» con la faccia ai suoi piedi. Nel nostro tempo molti cristiani assomigliano ai nove lebbrosi giudei: praticano molto, ma non sanno contemplare; fanno spesso la comunione, ma non sanno ringraziare; dicono di amare Dio con tutto il cuore, mentre sono invaghiti solo di se stessi, perché disprezzano gl’immigrati e chi scappa dalla povertà, dalla guerra e dalla disperazione; vanno in chiesa ed escludono gli altri; pregano, illudendosi di parlare a Dio, mentre sparlano di tutti. Gesù ci dà una perfetta lezione di laicità: Dio non può essere posseduto dall’istituzione religiosa che non può nemmeno pretendere di «battezzare» ogni cosa quasi che solo la religione possa dare valore alla vita. La realtà ha un valore intrinseco che deve essere riconosciuto nella propria autonomia e finalità; la fede solo precisa le ragioni «ulteriori» in nome delle quali i credenti agiscono.  Oggi siamo invitati a celebrare l’Eucaristia come punto di partenza di una nuova visione: non basta essere religiosi, bisogna credere; non basta credere, bisogna amare; non basta amare, bisogna amare gratuitamente; non basta amare gratuitamente, bisogna amare senza chiedere in cambio nulla. Dio ci ama come siamo, e se ci lasciamo amare ci trasforma a sua immagine, e noi ameremo gli altri come Dio li ama, senza pretendere da loro nulla in restituzione.  L’Eucaristia è Parola povera che ha in sé la forza della debolezza del Pane che si spezza. È anche la prospettiva della Sapienza che si preoccupa di preparare la mensa per nutrire della conoscenza di Dio: «La Sapienza ha imbandito la sua tavola… Venite, mangiate il mio pane, bevete il mio vino che io ho preparato… È il segno della gratuità graziosa di Dio. Tornando a casa e al lavoro, camminando per le strade, anche noi possiamo essere parola fragile e forte, pane che nutre con l’amore con cui accogliamo quanti incontriamo. Il resto è superfluo