21 Nov Domenica trentaquattresima. Cristo re. Giovanni 18, 33-37
Il tema di «Cristo Re», oggi, è un po’ fuori moda perché estraneo all’orizzonte della nostra cultura che vive in un contesto di democrazia, reale o fittizia che sia. Proviamo a entrare nello spirito e nello stile del vangelo. Gesù è re, non al modo di Cesare, ma al modo di Davide che conduce le pecore ai pascoli erbosi, le protegge nelle valli tenebrose, le cura con amore. Egli è re perché obbediente fino alla morte di croce si carica dei pesi dell’umanità e ne fa la sua corona regale simbolo del suo regno di misericordia: egli è re perché ama, perdona e muore. Il tempo è il «luogo» della presenza del Verbo eterno, che semina il germe della divinità nella fragilità umana e anche il punto di partenza della risurrezione di Gesù. Celebrare oggi l’Eucaristia non significa solo compiere un rito, ma spalancare le porte della finitezza all’amore folle di Dio. La festa di Cristo Re, che meglio potremmo definirla, la festa della sponsalità dell’umanità, è allora prendere coscienza che Gesù è sposo-pastore che ci protegge e cura con sommo amore. La nostra vita, il tempo che viviamo è lo spazio di questa «sponsalità» donata che lo Spirito Santo ci fa comprendere e sperimentare. Torna alla mente la bellissima e affascinante immagine della sponsalità espressa dal profeta Osea al capitolo secondo: “Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella benevolenza e nell’amore.”
Il testo svela la ricerca di Dio che è di tale intensità che affascina e invoglia a entrare in un rapporto vivo, un rapporto sponsale con la persona di Gesù. Allora anche il nostro cuore risponde con le parole di Angelo Silesius: “Dio mi ama più di sé, a lui di me dò tanto quant’egli a me di sé.” La prima tappa è quella dello stupore davanti al folle amore di Dio. Per intraprendere il viaggio occorre avere il coraggio di Mosè e avvicinarsi al roveto ardente, bisogna lasciare che Dio scriva la sua Parola sul nostro cuore e rimanere in silenzioso ascolto della sua voce che chiama, ammaestra, sospinge sempre oltre… È molto facile aggrapparsi all’immediato, al tutto e subito, al superficiale transeunte. Sorge qui la necessità di riprendere il percorso da una domanda essenziale posta da Gesù stesso, nel brano di Giovanni 1, 35-42 che dipinge una scena di vocazione: «Che cercate?»; rispondono: «Rabbi, dove abiti?», Gesù replica: «Venite e vedrete». Il discepolo è colui che cerca la dimora di Gesù per stare con lui, vuole conoscere chi è Gesù per seguirlo. Il «venite e vedrete» indica il mettersi alla scuola di Gesù per condividere la sua stessa intimità con il Padre, in dialogo profondo con lui. Il monito di Gesù è sempre di attualità anche per i cristiani, tentati sovente di “complicare” per sé e per gli altri l’esperienza spirituale con apporti non sempre di qualità. Più che mai essi devono dar prova che vivono raccolti sul Dio Amore, ponendosi al di là delle loro devozioni. Il Dio dei credenti non è un Dio pensato, imparato, insegnato e predicato, ma un Dio sentito come mio diletto che li mette in grado di muoversi nel mondo più come fiaccole accese di amore di Dio e meno come cervelli imbottiti di nozioni su Dio e schematizzati su forme rituali. Scrive Bruno Maggioni: «L’amore verso Dio come quello verso il prossimo, è sempre anche desiderio, slancio, affetto. Se questi aspetti mancassero, non si potrebbe più parlare di amore. Del resto è proprio l’amore verso Dio che esige la totalità. Con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la tua mente e con tutte le tue forze. L’uomo intero, dall’intelligenza ai sentimenti, è coinvolto nell’amore verso Dio. L’amore verso Dio è umanissimo. E tale è ancor più l’amore di Dio verso l’uomo. Come si può rispondere a questo amore del Padre e di Gesù, se non con un amore altrettanto vero, umanissimo, fatto di sentimenti e non solo di obbedienza?» L’amore di Dio per l’uomo, e anche l’amore dell’uomo per Dio, rimane un amore libero. Esso dipende essenzialmente da una volontà che giorno per giorno si rinnova nell’adesione, nella donazione di sé.