14 Lug Domenica Quindicesima. Matteo 13, 1-23
Il motivo per cui Gesù parla in parabole non è per «nascondere» il senso del suo messaggio, ma al contrario, egli parla in parabole perché le folle sono prevenute e ostili al suo insegnamento. Al regno di Dio bisogna accostarsi con cuore libero da pregiudizi, da attaccamenti e dalla paura delle implicanze dell’accoglienza della Parola. Il regno di Dio è un’esperienza concreta e riguarda il cuore, l’intelligenza e la sapienza; gli orecchi con cui si ascolta, si mangia la Parola interiorizzandola, devono essere attenti perché nessuna conoscenza è possibile senza ascolto interiore; infine gli occhi devono essere limpidi per avere la capacità di riconoscere la presenza di Dio nelle varie condizioni in cui si trova il terreno che riceve il seme. In questa motivazione di Matteo, troviamo il criterio di ogni relazione e specialmente di ogni relazione d’amore che esige tre disponibilità: la sintonia, l’adesione e la sperimentazione. Dopo la risurrezione di Gesù, questa parabola era usata dalla comunità primitiva di origine giudàica per commentare in modo cristiano lo «Ascolta, Israele!»; è questa la preghiera che l’ebreo recita tre volte al giorno: «Ascolta Israele, amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze». Un modo nuovo per dire quali devono essere le priorità del credente che deve porre Dio al primo posto, come assoluto unico.
Gesù esce da casa e va a sedersi di fronte al mare. Il mare tradizionalmente è la sede degli spiriti del male, il luogo del dragone e della bestia che vengono dal mare e fanno guerra alla vita di questa umanità. Uscire dalla casa significa andare incontro al mondo che contiene il bene e il male; il male non può essere evitato perché fa parte della vita e della storia. Il discepolo è colui che cammina nel mondo e non ha paura perché il male è dominato da Gesù che sta nella barca; pertanto il mare non è più fonte di paura e di aggressione, infatti ora c’è chi lo governa e lo contiene, come testimonia il racconto della tempesta sedata. Il discepolo non solo non deve avere paura del «mondo», ma deve abbandonare le sicurezze che possono venirgli dalla «casa» e avventurarsi nel rischio della testimonianza che ha come sicurezza solo la Parola del suo Signore. Ora, la domanda potrebbe essere: qual è il destino del seme dal momento che cade in quattro terreni diversi? Gesù pone l’accento sulla fatica che deve fare la semente per arrivare a frutto, una fatica lenta e pesante che spesso può contrastare con l’attesa del seminatore. Gesù non annuncia un giudizio di condanna per chi non accoglie il seme della Parola, anzi concede ancora tempo supplementare, come sarà più esplicito nella parabola del grano e della zizzania, perché nessuno si perda nel raduno del regno di Dio.. Gesù parla di se stesso nello stesso momento in cui agisce. Parla, infatti, non di «un seminatore» qualsiasi, ma de «il seminatore» . Gli ascoltatori non possono che pensare a lui; allo stesso modo le quattro tipologie del terreno non indicano quattro aspetti morali, ma descrivono con enfasi l’abbondanza del seme apparentemente sprecato sulla strada, sul terreno sassoso, superficiale e spinoso. A guardare questa semina con gli occhi della quotidianità banale, tutto sembra sprecato e inutile; bisogna solo saper guardare con gli occhi del futuro e aspettare che il terreno buono dia frutto, per verificare che nulla va perduto nel contesto della dinamica della Provvidenza. In questa dispersione del seme su ogni tipo di terreno, che sembra quasi voluta, Gesù intende inaugurare il tempo della misericordia che è la capacità di Dio di saper aspettare fino all’ultimo, anche oltre il limite della giustizia umana. Egli è come la Sapienza che prepara un banchetto nella sua casa per coloro che l’amano e non curandosi dell’accoglienza del terreno, offre sempre una possibilità, dando un supplemento di tempo per prendere una decisione. Partecipare all’Eucaristia significa acquisire il cuore, l’anima e le forze per affrontare qualsiasi situazione di terreno senza mai scoraggiarsi, nutrendosi della povertà del Pane e della Parola che ci aprono all’intelligenza delle parabole, cioè alla comprensione del disegno che Dio ha su ciascuno di noi, sapendo che nessuno di noi vive per sé stesso, ma come il seminatore siamo mandati a seminare la Parola nella certezza che Dio saprà far crescere i figli suoi anche dalle pietre.