23 Giu Domenica Dodicesima. Matteo 10,26-33.
La fede cristiana non è una coreografia o un vestito per la festa, ma assumere su di sé il destino di Gesù Cristo, segnato dal rifiuto degli uomini, fino a prendere sulle proprie spalle lo scandalo della croce. I discepoli non sono rappresentanti commerciali, ma partecipatori di vita e non possono condividere la vita con gli uomini del loro tempo se prima non l’hanno condivisa con il Signore che li manda. Essi sono un «memoriale» vivente, perché mentre testimoniano, rivivono l’esistenza di colui di cui sono testimoni. La loro vita è lo specchio fedele della vita del loro Signore che ripresentano come servo, come perseguitato,
come martire, come crocifisso. Solo attraverso la coerenza del missionario il mondo comincerà a credere che un altro mondo è possibile: il mondo della redenzione, della riconciliazione, dell’amore. Tutto ciò è il
fondamento teologico della incompatibilità della Chiesa col mondo del potere o semplicemente con lo stile del mondo. Se la Chiesa accetta di essere funzionale al sistema imperante, rinunciando alla sua voce
profetica di critica in difesa dei poveri, essa tradisce il suo Maestro. Quando la Chiesa usufruisce dei benefici che il mondo pagano le elargisce in cambio del suo silenzio, allora la chiesa diventa strumento di
una vaga religiosità civile senza sapore, un ingranaggio del mondo. Non c’è missione senza ostacoli o senza contestazione perché il mondo vuole essere libero da Dio per potersi asservire al Male. Gli uomini
credono di affrancarsi da un Signore creatore e Provvidente per ritrovarsi poi schiavi della loro stessa autonomia che li porta alla distruzione. Matteo illustra una vera teologia della missione, la cui prima caratteristica è la solidarietà tra il discepolo e il Maestro nella verità della rivelazione e nella
contestazione della sua stessa persona. Il discepolo è «nel» mondo: deve assumerne il peso, il peccato e le contraddizioni, ma non può condividerne lo stile, il metodo e le finalità. Non può venire a patti con il male.
Non deve nemmeno illudersi che tutti gli uomini accoglieranno il messaggio liberante di Cristo: le beatitudini saranno sempre contestate perché esigono un capovolgimento di vita e di criteri di vita. Modello
di questo «discepolato» è il profeta Geremia, che incontriamo nella prima lettura, perseguitato a motivo del suo ministero profetico. Uomo dolce e di natura pacifica, incline ai sentimenti positivi di bontà e dolcezza,
fu costretto a profetizzare tutto l’opposto e lo fece senza paura. La paura è sentimento umano che anima la nostra esperienza: abbiamo paura di avere paura, abbiamo paura della nostra insicurezza, delle nostre
incertezze, paura dei figli, paura di dire la verità, paura di essere noi stessi, paura di mostrarci per quello che siamo, paura del giudizio degli altri, paura del futuro. In una parola: viviamo in una vita finta. Gesù
oggi ci dà motivi per superare la paura delle paure. Nessuno può raggirare e manomettere la vita di qualcuno, perché nessuno ha potere sull’altro e quando ciò accade è prevaricazione e negazione di Dio. Ciò
però accade perché noi permettiamo a qualcuno di prendere possesso del nostro cuore e della nostra libertà. La vita di ciascuno dipende dalla Provvidenza che protegge le vite deboli dei suoi figli come quelle dei
passeri. Il raccolto si misura solo alla fine, quando tutto sarà svelato per cui non contano i successi o gli insuccessi lungo il percorso che spesso si dimostrano effimeri. Ciò che conta è solo la verità del discepolo
che dice al mondo la Parola che non è sua, la Parola che è la Persona stessa del suo Maestro e Signore, il solo a cui spetta il giudizio e la grazia. Il discepolo deve solo stare attento a non farsi irretire dagli
speculatori incontrati lungo il suo cammino e che vogliono solo sfruttare la sua missione per interessi e modelli di potere che invece gli devono essere estranei. L’Eucaristia, sacramento di purificazione e di
liberazione, ci liberi da ogni residuo di panteismo, di naturalismo e dalla presunzione di essere rappresentanti di Dio, mentre invece rappresentiamo forse malamente solo noi stessi, incapaci di abbandonare nel cuore di Dio tutte le nostre paure e le nostre ambiguità. Vincere battaglie civili come i
referendum o avere governi che si dichiarano amici, disposti a concedere privilegi, non è indice di fede, ma può essere il segno della confusione tra messaggio evangelico e discorso pagano sui valori, che si risolve in
un processo inevitabile di corruzione. Il credente non difende i suoi «valori» con la forza della legge civile perché riconosce a tutti, specialmente alle minoranze poco tutelate, la dignità e la libertà di essere se stessi.
I «valori» non sono lo specifico della liberazione evangelica, semmai la conseguenza. A volte è meglio perdere e aspettare la fine, piuttosto che vincere e restare impantanati nel relativismo della provvisorietà
mondana. La prospettiva della Chiesa deve essere il Regno non un governo.