23 Dic MUTI DAVANTI ALLA SOGLIA DI UNA STALLA
Sulla soglia di una stalla i Pastori si saranno probabilmente sentiti a casa loro, ma i Magi, ricchi e intelligenti, certamente no. E noi assomigliamo molto più a questi che a quelli. A meno di passare per un’esperienza acuta di impotenza della mente, non meno che del cuore, e della parola. Tale impotenza mi prende facilmente quando sono chiamato a riflettere sul Natale. R.S. Thomas, prete anglicano, poeta scabro e severo, mi aiuta ad uscire dal grande rischio della banalizzazione della parola con la sua poesia che si intitola Cieco Natale:
Natale; i temi sono esauriti.
E tuttavia c’è sempre spazio
nel cuore perchè un altro
fiocco di neve riveli uno schema.
L’amore bussa con dita così gelate.
Guardo fuori. Nell’ombra
di un Dio così vasto io tremo, incapace
a causa del bianco di scoprire il bambino.
Sono versi che dicono la nostra tragica incapacità di dire ancora qualcosa sul Natale, e insieme la voglia di non rassegnarsi alla ripetitività del rito senza che ne esca una qualche scintilla, fosse anche solo un sentimento che si rivela in un fiocco di neve.
Mi sento a casa mia nelle parole di Thomas. Mi trovo davanti a un Dio che se pur si rivela nella perfezione di un cristallo di neve è però anche quel biancore accecante che assomiglia pericolosamente al vuoto, un nome che a tratti sembra essere risucchiato nell’insignificanza di una parola che, logora per il troppo uso, non riesce più a definire nessun contenuto. È questo logorio, alla fine, la ragione per cui le nostre parole risultano essere una pura sequenza di segni e di suoni che non suscitano nessuna trasformazione, nessuna risonanza nel concreto della nostra vita.
E’ alla soglia di una stalla che siamo invitati a guardare. Anche se di stalle nella storia dell’iconografia della natività ce ne sono tante, ma per riscoprire la severità terrificante della grotta bisogna ritornare all’iconografia bizantina, dove lo sfondo è una caverna, e la mangiatoia ha la forma di una tomba: li la stalla di Betlemme assomiglia molto al sepolcro del Calvario. Ma tutto è perfettamente logico, perché l’incarnazione è la discesa di Dio nella debolezza e nella morte. E questo si fatica sempre a capirlo, come si fatica a vedere un bambino nel biancore di una distesa di neve, come si fatica a sentire nelle «dita gelate» che bussano alla porta le dita dell’amore.
Ma il «segno» resta sempre e ancora quello: «Un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia» (Lc 2, 12). Sono già le bende del sepolcro, è già il Dio che si umilia fino al nulla della morte, e così diventa pane per noi, come dice la parola Bet- lehme, casa del pane, perché la morte è offrirsi, ed è in questo offrirsi che si genera continuamente la vita. Il «segno» è questo.
Alle soglie della stalla quello che si intravede e che ci viene incontro, e forse sarebbe meglio dire contro, è solo la fragilità di un bambino. E’ questo bambino che ci insegna a rifiutare di rimanere accecati dal pulviscolo di parole insulse per aprire gli occhi su ciò che è apparentemente minuscolo, ma che cela la vera grandezza. E questo può essere un fiocco di neve o una persona che incontriamo un eventi che stiamo vivendo. E’ allora importante fare pace con la ferialità per aprire gli occhi alla «visione».
Splendore d’eterna luce
lascia alle tue braccia la libertà di stringermi,
non inclinare il capo, non voltarlo
ma dammi il tuo bacio come profumo
da sempre tenuto
nelle lucenti cavità del cuore.
Questa tua luce, come un altro cielo
diffondila sull’uomo
che da mille cespugli di menzogne
ascolta ancora suadenti parole
che lo spingono a raccogliere
amari frutti.
In questa notte allagata
da un plenilunio senza vento
fascia di pace
madri che ai propri bimbi
morenti disseccati nella sete
come esili arsi gigli del deserto
chiedono perdono per averli generati
non ai canti e ai sorrisi della vita.
Nostalgia di futuro profumata ancora
pur dentro il buio dei giorni,
il tuo grembo,
crocevia d’umani e divini sogni,
è vivace nido di speranza
che riaccende d’incanto smarrite gioie.
Sorgiva luce che irrori
ogni volto d’uomo
d’un fuoco che non consuma
fattosi più limpido stanotte
imperiosa ardi,
in lieto incendio d’angeli e di stelle.