Guariento Mario | Quinta domenica dopo Pasqua. Giovanni 15,1-8 
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Quinta domenica dopo Pasqua. Giovanni 15,1-8 

29 Apr Quinta domenica dopo Pasqua. Giovanni 15,1-8 

Secondo il racconto evangelico di Giovanni, alla vigilia della sua morte, Gesù rivela ai discepoli il suo desiderio più profondo: «Rimanete in me». Conosce la loro viltà e la loro mediocrità, in molte occasioni ne ha rimproverato la poca fede. Se non si manterranno uniti a lui in modo vitale, non potranno sussistere.
Le parole di Gesù non possono essere più chiare ed eloquenti: “Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me”. Se non si mantengono saldi in quello che hanno appreso e vissuto insieme a lui, la loro vita sarà sterile. Se non vivono del suo Spirito, quanto è stato iniziato da lui si estinguerà.
Gesù non si limita a chiedere loro di rimanere in lui, ma anche che «le sue parole rimangano in loro». Non le dimentichino, vivano del suo evangelo. È quella la fonte alla quale devono dissetarsi. Lo aveva detto già in un’altra occasione: «Le parole che io vi ho detto sono spirito e vita».
Lo Spirito del Risorto oggi resta vivo e operante nella Comunità in molte forme, ma la sua presenza invisibile e silenziosa acquista tratti visibili e voce concreta grazie al ricordo conservato nei racconti evangelici da quanti lo conobbero da vicino e lo seguirono. Nei vangeli ci mettiamo in contatto col suo messaggio, il suo stile di vita e il suo progetto di una umanità nuova.
Per questo, nei vangeli si nasconde la forza più potente che le comunità cristiane possiedono per rigenerare la loro vita, l’energia di cui abbiamo bisogno per recuperare la nostra identità di discepoli di Gesù. L’immagine è semplice e fortemente eloquente. Gesù è la «vite vera», piena di vita; i discepoli sono «tralci» che vivono della linfa che arriva loro da Gesù; il Padre è l’agricoltore» che si prende cura personalmente della vite perché dia frutto in abbondanza. L’unica cosa importante è che si realizzi il suo progetto di un mondo più umano e felice per tutti.
L’immagine mette in rilievo dove si trova il problema. Ci sono tralci secchi in cui non circola la linfa di Gesù; discepoli che non danno frutto perché nelle loro vene non scorre lo Spirito del Risorto; comunità cristiane che languiscono perché sono staccate dalla sua persona.
Per questo Gesù fa un’affermazione carica di intensità: «Il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite»: la vita dei discepoli è sterile «se non rimangono» in Gesù. «Senza di me non potete far nulla».                                                                                                      Per essere cristiani oggi c’è bisogno di un’esperienza vitale di Gesù Cristo, di una conoscenza intima della sua persona e di una passione per il suo progetto. Se non impariamo a vivere di un contatto più immediato e appassionato con Gesù, il nostro cristianesimo potrà trasformarsi in religiosità 
La fede non è un’emozione del cuore. Senza dubbio, il credente sente la propria fede, la sperimenta e l’assapora, ma sarebbe un errore ridurla a «sentimentalismo». La fede non è qualcosa che dipende dai sentimenti. Essere credenti è un atteggiamento responsabile e ragionato.                                                                                                                                            

La fede comincia a sfigurarsi quando dimentichiamo che, prima di tutto, è un incontro personale con Cristo. Il cristiano è una persona che si incontra con Cristo e in lui scopre un Dio amore che lo convince e lo attrae ogni giorno di più. Lo dice molto bene Giovanni: «E noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi. Dio è amore».
La coscienza spirituale raggiunge la sua intensità massima nella vita di unione con Dio. La vita mistica. E’ nella vita di unione con Dio che il discepolo percepisce nella sua coscienza la presenza attiva di Dio nell’atto di comunicare il suo amore e la sua luce. L’uomo unito a Dio non solo impara ma prova per esperienza la realtà divina.In lui c’è un continuo passaggio dalla conoscenza all’amore, dall’amore alla conoscenza.S. Gregorio Nisseno dice:

“L’anima è ormai circondata dalla notte divina nella quale lo sposo si avvicina, ma non appare. Come infatti ciò che non si vede potrebbe apparire nella notte?

Ma egli dà all’anima un sentimento di presenza pur sfuggendo alla conoscenza chiara, nascosto come è dall’invisibilità della sua natura.” 

La vita di unione con Dio è l’esperienza della sua presenza sponsale nella notte, nella oscurità della vita con le sue prove, sconfitte e fatiche. Questo sentimento di presenza costituisce il carattere distintivo dell’ingresso nella vita di unione con Dio o contemplazione mistica.

L’unione con Dio non lascia spazio alla tristezza e allo scoraggiamento perché la presenza dello Spirito è silenzio, pace e dolcezza. Così si esprime s. Massimo Confessore:

“Quando lo Spirito Santo discende verso l’uomo e lo copre con i suoi doni, l’anima dell’uomo si riempie di pace. La vita di unione con Dio è tenere lo Spirito rivolto a Dio in un ardente amore, è mantenere lo spirito nella speranza di Dio, contare su Dio in tutte le nostre azioni e in tutto ciò che ci accade”. Fissare il nostro spirito in Dio, questo richiede padronanza del nostro cuore e della nostra sensibilità.