18 Apr Quarta domenica dopo Pasqua. Giovanni 10, 11-18
Io sono il pastore bello, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, e offro la vita
per le pecore. Ho altre pecore che non sono di quest’ovile, anche queste io devo condurre.”
Gesù ha appena messo in dubbio l’autorità dei farisei e ora Giovanni ne porta la prova con la
parabola del pastore bello il quale, al contrario di essi, esercita la propria autorità basandosi su
tre criteri: vivere, conoscere, unire. Non è altro che il progetto di una vita piena e realizzata che
deve essere applicato a noi stessi, prima di pretendere di offrirlo ad altri. Ognuno di noi può
essere pastore di se stesso quando dà alla propria esistenza la dimensione della conoscenza,
intesa come esperienza profonda di ciò che si è e di ciò che si sperimenta, realizzando l’unità di
se stessi in tutte le dimensioni del vivere in relazione. In altri termini, tutto ciò è possibile,
quando noi viviamo ponendoci in un atteggiamento di ecumenismo esistenziale: unità tra ciò
che si pensa e ciò che si fa, tra ciò che si fa e ciò che si prega, tra ciò che si prega e ciò che si
spera, tra ciò che si spera e ciò che si vive. Corriamo il rischio di subire la vita, non di viverla, di
essere banali e non protagonisti. Il mondo attende la Parola, il mondo è in attesa della
«bellezza». Non possiamo limitarci a rinchiuderci negli angusti confini del nostro giardino. Non
siamo noi per noi, ma figlie e figli dello Spirito per andare alla ricerca dei germi di risurrezione
che il Signore ha disseminato in tutta l’umanità. Esistiamo per essere gli operai dell’unità del
genere umano, i servi dell’accoglienza, i ministri della fraternità: ho altre pecore.
Sono dunque tre i messaggi che Gesù ci propone: l’offerta reciproca di vita, la conoscenza che
fiorisce dall’amore e l’orizzonte unitario della storia umana, così da formare una sola umanità,
una fraternità che riconosce l’unico principio della vita che è appunto l’amore di Dio. Allora
veramente diventiamo vivi, accogliendo le offerte di vita che nelle relazioni il Signore ci offre e
facendone noi doni per gli altri.
Mandati a essere «sale della terra», ci accontentiamo di essere erba rinsecchita da falò,
dovremmo essere gli «esperti» del Dio che si spezza e frantuma per essere mangiato da tutti e
incarnato in tutte le culture, spesso invece siamo capaci di vendere anche Dio per meno di
trenta di denari perché ci lasciamo abbindolare da falsi profeti che annunciano e attuano
catastrofi per difendere il proprio interesse. Un sapiente Sufi del secolo XIII diceva: «Tutti i figli
di Adamo formano un solo corpo, sono della stessa essenza. Quando il tempo affligge con il
dolore una parte del corpo anche le altre parti soffrono. Se tu non senti la pena degli altri, non
meriti di essere chiamato uomo» (Saadi di Shiraz). Ciascuno di noi è un Nome, cioè qualcuno/a
che è in relazione vitale con qualcun altro, espressa dal binomio ascoltare – diventare. È il
mistero dell’Eucaristia: ascoltiamo la Parola, diventiamo Pane. L’ascolto non è un semplice
«sentire» e il diventare non è un semplice «movimento»: l’ascolto è già trasformazione perché
attraverso gli orecchi noi diventiamo ciò che ascoltiamo così come noi diventiamo il Pane che
mangiamo. Al seguito del «pastore bello», andiamo sui marciapiedi del mondo e condividiamo
la bellezza che abbiamo imparato a questa mensa e contemporaneamente scopriamo la bellezza
che incontriamo sul nostro cammino. Il dono reciproco della vita realizza quel flusso nel quale la
vita in noi è alimentata dai fratelli la cui vita, a nostra volta, noi alimentiamo, in un rapporto che
è conoscenza d’amore, per cui ogni giorno consoliamo, perdoniamo, guariamo e generiamo
speranza. Offrire vita è sviluppare la dimensione spirituale, la consapevolezza di una Forza più
grande che ci alimenta e alla quale ci abbandoniamo con fiducia. Accogliere vita è necessario
perché la Fonte non è in noi e non ci appartiene, dobbiamo aprirci all’offerta di vita che
attraverso gli altri ci perviene per arrivare a morire viventi.