03 Nov Festa di tutti i Santi. Matteo 5, 1-12
Narra un midràsh ebraico che dopo aver creato la terra, prima di creare l’uomo, al crepuscolo del quinto giorno della creazione, Dio incaricò l’arcangelo Michele di raggiungere i quattro angoli della terra e di portargli un pizzico di polvere, con cui avrebbe creato Adam, simbolo di tutta l’umanità. Non esiste, dunque, angolo della terra, che non sia sotto lo sguardo amoroso di Dio. Egli, infatti, ricevuta la polvere dei quattro punti cardinali, impastò, diede forma, animò e infine «ecco l’uomo» che nell’intenzione divina non è bianco, nero, giallo, residente o migrato, cittadino o straniero, ma è solo «Àdam», cioè il «genere umano». Ogni individuo per definizione porta in sé tutta l’umanità e tutta l’umanità è contenuta in ogni persona, uomo o donna, di qualunque paese, nazione, cultura e lingua; ogni individuo, infatti, ha solo una caratteristica: è «immagine eterna di Dio». La memoria di Tutti i Santi è la solennità dell’universalità della fede, senza differenze. Oggi il richiamo alla «santità» non fa riferimento a un «modello eroico» di vita, ma alla condizione ordinaria della vita che non può non essere «santa». Santità è la coerenza all’interno di una relazione che si fonda sulla coscienza di vivere in ogni condizione di esistenza, indipendentemente dai condizionamenti di qualunque genere, un rapporto privilegiato di Dio che si manifesta nel cuore di ciascuno. Tutti siamo chiamati a rendere visibile e credibile il volto di Dio attraverso la nostra vita. Oggi vogliamo purificare i nostri criteri di valutazione e vogliamo imparare a guardare la vita con gli occhi di Dio che sceglie Davide non perché il primogenito o più forte o il più appariscente, ma unicamente perché è secondo il suo cuore. La prima reazione che si ha, leggendo il testo delle Beatitudini, queste affermazioni secche e determinate, induce a pensare a una «contraddizione» che può sembrare anche un’assurdità. Da una parte la «felicità» è scontata per alcune categorie di persone come «gli operatori di pace e i puri di cuore» per i quali appare ovvio che siano oggetto di «felicità». Dall’altra, lascia interdetti abbinare la «beatitudine» a condizioni di vita che «oggettivamente» sono la negazione di qualsiasi «felicità», perché sono lo stato dell’inferno in vita. Come si può dire «beato» il povero, l’afflitto, l’affamato, senza essere accusati di stare «fuori dalla storia»? Da sempre la felicità è sinonimo di ricchezza come infelicità lo è di povertà. È necessario prendere coscienza di questa «distanza» se vogliamo cogliere la novità del vangelo, altrimenti si scade nella posizione di chi afferma che esso sia un bell’ideale, ma irrealizzabile in terra. Non ci resta che salire il monte di Matteo accostandoci a Gesù per apprendere le beatitudini del cuore e ridiscendere nella storia per realizzarle con tutti gli uomini e le donne che egli ama. Essere santi significa in primo luogo essere sé stessi, esserlo sempre, esserlo senza paura. Essere sé stessi significa prendere coscienza che ciascuno di noi è un valore immenso, eterno e senza prezzo, perché ogni uomo e ogni donna è «immagine di Dio». Ognuno di noi lo è per sempre. Essere santi vuol dire incontrare Gesù Cristo e riconoscerlo come Figlio e in lui riconoscersi figli. Questo significa che qualunque sia lo stato della nostra vita, anche quando sbagliamo, noi siamo sempre figli di Dio, perché come la paternità umana non può essere disconosciuta nei confronti di un figlio degenere, così la paternità/maternità di Dio non può, per rivelazione, venire mai meno. Anche se noi cessassimo, per assurdo, di essere figli di Dio, Dio non può cessare di essere «Padre», perché rinnegherebbe se stesso e Dio non può ingannarsi né ingannarci. Siamo Santi e Sante, ogni volta che in tutto ciò che siamo, viviamo, speriamo, disperiamo, amiamo e temiamo, sappiamo riconoscere il segno di Dio, che è lo Spirito Santo. Ogni volta che ne rileviamo la presenza, noi compiamo un atto di santità che di per sé è contagioso. Ogni volta che amiamo noi diamo volto e nome all’amore di Dio che viene a sedersi a mensa con noi per condividere la sua eternità d’amore. Ogni volta che sappiamo riconoscere negli altri il sigillo di Dio e sappiamo accoglierli come parte integrante di noi stessi, noi siamo santi. Nel lavoro, nelle scelte della vita, nella vita in famiglia, con gli amici, in viaggio, ovunque diamo un senso a tutto ciò che operiamo e facciamo, noi estendiamo la santità di Dio attraverso la normalità e l’ordinarietà della vita vissuta come pellegrinaggio verso la tappa conclusiva: il Regno di Dio. La santità è incontrare Dio che è presente in tutte le persone che incontriamo sul nostro cammino, chiamarlo per nome e farlo entrare nel nostro cuore e nel nostro affetto, perché Dio è uno solo, ma presente in tutti. È questo il segno della santità cristiana che diventa fede in Dio e accoglienza di uomini e donne in un cammino di speranza per costruire un presente e un futuro di amore. Si rallegri l’uomo perché oggi prende inizio una storia nuova, inaugurata da Dio e proseguita dagli uomini su sentieri tracciati e dipinti con mano divina. Vie affastellate di mine esplosive e di agguati di guerra provocanti dolore e morte, saranno liberate da donne e uomini miti, anche se lacrimanti e affannati, proclamando e inaugurando la pace. Per cuori inappagati perché sempre desiderosi di giustizia e operatori di uguaglianze e di garanzie di diritti per tutti, c’è l’annuncio di presenze di mani che distribuiscono pane di amore e acque non inquinate. Un Dio di misericordia proclama tempi di complicità con l’uomo debole, bisognoso di comprensione, di perdono, di sentimenti divini, come di un Padre che si fa misero con i miseri, pietoso con chi cerca pietà. Oggi è la nostra Pasqua, la festa della vita contro la morte.
La morte non è niente.
Sono solamente passato dall’altra parte:
è come fossi nascosto nella stanza accanto.
Io sono sempre io e tu sei sempre tu.
Quello che eravamo prima l’uno per l’altro lo siamo ancora.
Chiamami con il nome che mi hai sempre dato, che ti è familiare;
parlami nello stesso modo affettuoso che hai sempre usato.
Non cambiare tono di voce, non assumere un’aria solenne o triste.
Continua a ridere di quello che ci faceva ridere,
di quelle piccole cose che tanto ci piacevano
quando eravamo insieme.
Prega, sorridi, pensami!
Il mio nome sia sempre la parola familiare di prima:
pronuncialo senza la minima traccia d’ombra o di tristezza.
La nostra vita conserva tutto il significato che ha sempre avuto:
è la stessa di prima, c’è una continuità che non si spezza.
Perché dovrei essere fuori dai tuoi pensieri e dalla tua mente, solo perché sono fuori dalla tua vista?
Non sono lontano, sono dall’altra parte, proprio dietro l’angolo.
Rassicurati, va tutto bene.
Ritroverai il mio cuore,
ne ritroverai la tenerezza purificata.
Asciuga le tue lacrime e non piangere, se mi ami:
il tuo sorriso è la mia pace.