02 Ott Domenica Ventiseiesima. Matteo 21, 28.32
… Gesù allora chiede alle autorità religiose: Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio». Il verbo greco tradotto con “passare avanti”, non indica precedenza, ma indica esclusione, cioè “vi hanno preso il posto”. Quelli che voi pensate siano responsabili del ritardo del regno di Dio, loro ci sono già e voi siete rimasti fuori…
Il vangelo di oggi ci dice che non basta fermarsi alle buone intenzioni, ma scendere in profondità per essere in grado di porre a confronto il modo di essere di Dio e quello dell’uomo anche nelle conseguenze comportamentali e scelte di vita. Il credente sa che dal suo comportamento, più che dalle sue parole, dipende la credibilità stessa di quel Dio in cui afferma di credere, in quanto lo sperimenta in sé più intimo di quanto possa immaginare.
L’agire è la conseguenza logica del modo d’essere, l’esito visibile del mondo interiore, spesso nascosto anche a noi stessi. È necessario conoscere «chi siamo» per capire come ci comportiamo. Il compito e l’impegno più difficili per un credente, ma anche per ogni persona ragionevole, sono la tensione all’unità interiore: essa riguarda ciascuno di noi nel cammino verso la sintesi armonica dell’essere e dell’agire. L’unità interiore personale è l’obiettivo dell’esistenza di ciascuno.
Quando la nostra parola diventerà la nostra vita vissuta e la nostra vita vissuta sarà la nostra parola, allora e solo allora, possiamo cominciare il cammino dell’unità interiore. La Parola di Dio di oggi ci chiede di non perdere mai la capacità di «ascolto». Ascoltare non significa solo udire le parole materiali. Ascolto è sinonimo di empatia: mettersi sulla stessa lunghezza d’onda di chi sta di fronte a noi, viverne il travaglio, comprenderne le motivazioni e le finalità. Il vangelo oppone due tendenze: le parole dette e le scelte di vita. Le parole finalizzate a se stesse svaniscono subito perché sono un guscio vuoto. Chi è superficiale getta parole al vento, senza sapere che ogni parola ha un’anima e un corpo e possiede una vita che non può essere dilapidata. Ogni parola che pronunciamo è preziosa e lascia sempre il segno, ogni parola è e deve essere parola di carne che diventa vita, scelta, condivisione, contrasto, fatto, comprensione, consenso, rifiuto e sentimento, dialogo: in una parola, relazione.
In una società dominata da cicaleccio, dal rumore e dagli sms, acquista valore profetico l’invito del mistico indiano Tagore ai suoi discepoli: «La polvere delle morte parole ti copre, lavati l’anima nel silenzio». Tutto ciò vale anche per la vita di fede: non basta dire di credere, bisogna credere. Non basta nominare Dio e fare preghiere vocali, bisogna somigliare a Dio. Non basta praticare la religione del dovere, bisogna vivere la fede della fiducia che si fa abbandono, esponendola al rischio della nostra fragile testimonianza, ma che è il più grande dono che ciascuno di noi può fare all’umanità intera: il dono della parola divenuta vita. Pur tra mille sbandamenti, si può perseguire l’obiettivo dell’unità interiore, lavorando perché la parola corrisponda all’azione, questa alla preghiera che a sua volta s’identifica con il pensiero, il quale nutre le scelte di coerenza e trasparenza. Se volessimo sintetizzare la parabola in una sola parola, potremmo definirla come la parabola della verità. Ognuno di noi deve vigilare perché è facile dire agli altri che non sono coerenti: questa parabola inchioda ciascuno alla propria responsabilità, perché in ogni momento possiamo essere i figli della contraddizione. L’Eucaristia è la forza che nutre la nostra capacità e volontà di aderire alla volontà del Padre superando ogni interesse particolare e momentaneo per essere figli dell’obbedienza e della testimonianza credibile.