28 Ott Domenica trentesima. Marco 10, 46-52.
Sedeva lungo la strada a mendicare. La strada, che è il luogo del movimento, diventa il luogo dell’immobilità, il luogo abituale delle prostitute ma se si tengono gli occhi del cuore attenti, può essere il luogo dell’incontro decisivo. Gli occhi sono solo un mezzo, la vera vista è quella del cuore. Bartimeo in mezzo alla strada, nel traffico, tra la «molta folla», è capace di «vedere», oltre la sua stessa cecità, oltre la barriera della folla: la sua voglia di incontrarlo è tale che rende possibile anche l’impossibile e grida: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Il primo grido dell’uomo non è la richiesta di guarigione, ma l’invocazione di perdono. Il povero non ha nulla da difendere e rischia perché ha solo la voce per gridare la propria disperazione col bisogno di perdono.
Questa folla, apparentemente «discepola», vuole impedire che il cieco «veda», diventando ostacolo tra il cieco e Gesù. Coloro che seguono, che credono, che frequentano possono essere un ostacolo attivo all’incontro. Quel cieco che essi incontravano ogni giorno davanti alla porta e che forse hanno consolato o commiserato, ora viene emarginato ancora di più «in nome di Dio». È come se la folla dicesse: non gridare, taci, non vedi che disturbi la processione? Dobbiamo andare dietro a Gesù, non abbiamo tempo per te che già sei cieco. C’è sempre qualcosa d’importante e di urgente che impedisce di ascoltare le persone e la vita. Il bisogno del cieco è più forte dell’indifferenza della folla: egli grida più forte. La pianta che nasce è più forte della terra che la sovrasta. Il cieco non accetta di essere messo a tacere e grida di più. Egli contesta la folla con l’urlo della sua vita. Credere è vedere Gesù in tutto lo splendore della sua umanità. Credere è avere una coscienza sveglia, attenta e urlante. Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Il grido del povero ha il potere di fermare Dio davanti al bisogno dei suoi figli. Gesù a questo punto si rende conto della necessità del cieco e dell’atteggiamento della folla e coinvolge la folla che prima era stata d’impedimento. Credere è essere capaci di fermare Dio sulla propria strada e di lasciarsi coinvolgere nel suo disegno di liberazione. La folla si trasforma, da ostacolo e impedimento in strumento consapevole dell’incontro. Gli stessi che lo sgridavano per non disturbare «l’evento», ora si fanno prossimo, consolano, incoraggiano e aiutano. Chi prima dispensava la morte dell’emarginazione, ora offre la mano per la risurrezione. Un capovolgimento totale di mentalità. Credere è alzarsi dalla propria condizione e lasciarsi accompagnare da chi chiama. Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Bartimeo butta via anche ciò che è necessario per la sua sussistenza, e schizza fuori dalla sua immobilità e butta la sua sicurezza e, nonostante sia cieco, si presenta davanti a Gesù, tra due ali di folla. Anche quando si è schiacciati dal male e si è immersi nell’oscurità e non riusciamo a vedere nulla, è sufficiente ascoltare la Parola per essere capaci di «risurrezione», balzare in piedi e correre. Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». La situazione è capovolta: prima era il cieco che pregava, ora è Gesù che prega il cieco. La prova che la nostra preghiera è autentica l’abbiamo quando sperimentiamo che è Dio stesso a pregare noi: «Che vuoi che io faccia?». Nella preghiera noi sperimentiamo che la nostra richiesta si trasforma in domanda di Dio a noi perché vuole sapere cosa ci occorre. Credere è avere coscienza che è Dio a pregarci per donarci «quello che vogliamo». Qui si tocca il vertice della mistica: pregare è prendere coscienza che è Dio a pregare noi. C’è un testo illuminante del Targùm che commenta un passo del Cantico dei Cantici: «O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave, il tuo viso è incantevole» (Ct 2,14). «Quello che vogliamo» è la coscienza di vivere integralmente il progetto del regno, desiderato con tutto il nostro cuore e voluto con tutta la nostra volontà e intelligenza. Possiamo dire che ci troviamo nella dimensione descritta da Sant’Agostino: « ama e fa’ ciò che vuoi». Se si ama, non si può non volere l’amore che è la vita stessa. L’amante non desidererà né vorrà nulla al di fuori dell’amore della persona amata. È l’esperienza di Bartimeo: egli chiede, ed è a sua volta richiesto da Gesù, di fargli il dono di essere se stesso, prendendo coscienza che fede e vista sono sinonimi. E il cieco gli rispose: «Rabbunì che io veda di nuovo!». Egli «sa ciò che vuole» e per questo non si perde in parole inutili, ma chiede con supplica affettuosa. Non è più il «Figlio di Davide», ora davanti al cieco c’è la persona che lui non può vedere, ma di cui sente la voce, voce che sente di sua proprietà perché costui lo ascolta con tutto se stesso. Immaginiamo la scena: mentre parla, protende le mani e forse prende quelle del Signore tra le sue. Toccandolo, lo sente meglio, perché riesce ad orientarsi. L’uomo sta di fronte al Figlio dell’Uomo e tutto si relativizza: l’umanità, la divinità, la cecità. Accade un evento straordinario: l’uomo isolato sulla strada entra in relazione con il Maestro che passava di là e non a caso. Sta accadendo un «nuovo esodo»: è cambiata la vita di un uomo e per sempre. A questa consapevolezza affettuosa Gesù risponde in modo singolare: «Va’, la tua fede ti ha salvato». Bartimeo chiede la vista e riceve la salvezza fondata sulla fede. Qui il termine «fede» significa avere riposto la fiducia in Gesù e questo genera la salvezza. Se per il cieco la salvezza è vedere, per Gesù vedere significa credere. Gesù non dà altro che se stesso, facendosi sperimentare. Giovanni dirà in modo magistrale che credere è toccare fisicamente il Logos della vita: «Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. Senza l’umanità di Gesù e senza sperimentazione non può esserci visione, come dimostra Bartimeo: per credere deve vedere. Il Nome «Gesù» invocato dal cieco trasforma la strada in tempio ed entra nella storia di ogni uomo, svelandone il senso e la grandezza. Credere è ricevere la totalità di Dio. E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada. Acquistare la vista produce un movimento verso Gesù e verso nuovi orizzonti. Dall’immobilismo della strada al camminare come progetto di vita. È la missione. Si acquista un dono non per sé, ma per andare e annunciarlo agli altri con i quali si condivide il percorso, diventando parte viva di una comunità in cammino. Credere è camminare con gli altri verso lo stesso obiettivo, seguendo l’unico Gesù.