01 Set Domenica Ventiduesima. Matteo 16, 21-27
La liturgia odierna legge un breve tratto autobiografico delle «confessioni» di Geremia, in cui il profeta si pone davanti a Dio e lo accusa di essere responsabile di ogni sua sventura fino al punto di arrivare a maledire il giorno della sua nascita, tanto si sente oppresso dall’angoscia, anticipando di qualche secolo la problematica di Giobbe, il «grande accusatore di Dio». Qui sta uno dei vertici di tutta la letteratura religiosa: Geremia come Giobbe, pone il tema dell’autenticità della relazione del giusto con Dio. Il profeta manifesta tutta la sua angoscia e disperazione, domandandogli conto del suo agire. All’atteggiamento del profeta si oppone l’atteggiamento filiale di Gesù, il quale, anticipando la propria morte violenta, invita i suoi discepoli a farsi carico della croce che la fedeltà a Dio comporta. Gesù non scarica sul Padre la sua angoscia, ma si abbandona al suo amore. Egli, pur schiacciato dall’angoscia del vuoto attorno a sé e «dentro» di sé, mai si separa dal Padre suo cui è abbracciato per la vita e per la morte. Pietro ha appena tentato di distrarre Gesù dal suo cammino, rifiutandosi di fatto di seguirlo verso Gerusalemme, la città dove si sarebbe manifestato il Cristo crocifisso, scandalo e obbrobrio dei benpensanti laici e religiosi. Ora Gesù diventa serio e intransigente: non c’è posto al suo seguito per chi è in cerca di carriera, di successo mondano e di approvazione degli uomini. Chi vuole essere suo discepolo deve rinunciare al suo ego possessivo ed orgoglioso, rinunciare a pensarsi secondo gli schemi e le prospettive del mondo. Deve rinunciare ad andare dietro a un Dio fantoccio costruito con le proprie idee e aspettative. In altre parole «rinunciare a se stessi» significa imparare a conoscersi dal punto di vista di Dio e della propria vocazione. Perdere la vita è vivere quello che i mistici definirono come ‘distacco’, e gli orientali come ‘vuoto’. La nostra vera identità sarà data non dalle cose esterne a noi stessi, ma dall’emergere del nostro ‘sé autentico’, e questo verrà definito quando tutto il resto si frantumerà. «Prendere la propria croce» significa accettare di andare incontro al rifiuto, alla ostilità del mondo, entrare nella logica del Servo Sofferente. Come è strano il Dio di Gesù Cristo che con un gesto o una parola potrebbe sconvolgere il mondo come con la parola ha creato l’universo e invece si sottomette alla logica illogica della povertà, della morte, della gratuità e del dono di sé senza chiedere contropartita. Se Pietro pensa di salvare la vita, allontanandosi dal suo cammino di discepolo del Cristo crocifisso, egli scoprirà di averla perduta perché morire significa smarrire il senso della vita e la direzione della propria vocazione. Se invece la perderà, accettando l’irrazionalità di Dio che sceglie ciò che nel mondo è spazzatura per confondere i sapienti, allora Pietro, e con lui tutti i discepoli futuri, la ritroveranno anche morendo perché il valore della vita e della morte sta nel senso che hanno e che esse esprimono. A volte coloro che appaiono vivi sono morti che camminano, mentre coloro che sono morti, sono segni di vita piena e vita fiera. L’altare dell’Eucaristia può essere per noi la discriminante tra la vita e la morte: è vita se diventiamo vita da condividere con gli altri e per gli altri, è morte se la teniamo solo per noi come se la Parola, il Pane e la fraternità fossero una proprietà privata. Siamo pietre vive insieme a coloro che incontriamo lungo la nostra strada: una sola pietra può racchiudere l’intero tempio, se saprà stare accanto alle altre pietre che sostengono lo stesso tempio. Oggi siamo davanti a questo altare, dove si consuma l’Eucaristia che è un atto di seduzione, un tentativo da parte di Dio di farci deragliare dall’istinto di prevaricazione, dal desiderio dell’egoismo e aprirci all’orizzonte della comunione e dell’alterità. Questo altare è innalzato sul monte del mondo per spezzare il pane della vita a quanti hanno intimo desiderio di lasciarsi sedurre e afferrare in un’avventura definitiva di amore, non di possesso violento. E’ in atto una seduzione d’amore per una passione d’amore perché i segni esterni non sono eclatanti e nemmeno straordinari, ma segni poveri che inducono a un atteggiamento povero di abbandono e di attesa. Sono un pane che si spezza per lasciarsi frantumare e consumare senza chiedere in cambio nulla se non essere mangiato; un vino che si versa da sé per dissetare quanti hanno sete di giustizia; una Parola d’amore che è quanto di più fragile possa esistere in natura, ma su cui si basa la fiducia di chi ama e di chi vuole essere amato.