16 Mar Domenica Quarta di Quaresima. Giovanni 9,1-41
Questo racconto, lungo e minuzioso, è pensato e redatto per sfociare nel momento finale e culminante: l’atto di fede che fa il cieco quando si prostra davanti a Gesù; un atto di fede che non è fede in Dio o nel Figlio di Dio, ma fede nel Figlio dell’Uomo. «Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te».
L’espressione «Figlio dell’Uomo» nei vangeli è usata solo da Gesù. È stata una novità introdotta da Gesù in quella cultura. Si tratta di un’espressione semitica, «bar ‘adam», «figlio di Adamo»; o il suo equivalente «bar nasa», «figlio di uomo». «Adamo» è lo stesso che «uomo», il collettivo umano. Perciò dire, «figlio di Adamo» è lo stesso che dire «l’uomo», l’«essere umano». Quindi il vangelo di Giovanni racconta un percorso molto difficile, che ha come epilogo finale e conclusione la fede nell’uomo.
Il percorso è terribile. Non appena il cieco incomincia a vedere, incominciano anche le difficoltà: i vicini dubitano, i suoi genitori lo abbandonano e non prendono le sue parti, i capi religiosi lo insultano ed alla fine lo scomunicano come uno «nato tutto tra i peccati». Si tratta, quindi, di un percorso di crescente solitudine: lo abbandona la società, lo lascia solo la famiglia e lo scomunica la religione. Bisogna passare per tutto questo per credere veramente.
Ma credere in chi? Nel Figlio di Dio? No. Si tratta di credere nell’uomo. Questa è la cosa più difficile. Perché questo richiede un percorso di spoliazione da tutto quello che ci impedisce di essere in piena sintonia con l’umano, di credere nell’umano. Noi uomini siamo disposti a porre la nostra fede nel potere, nell’onore, nel denaro, nella scienza, nell’esoterico… Crediamo nelle divinità, nei miracoli, nei riti e nei guaritori. La rovina dell’umanità è che non crediamo nell’uomo. Per questo non lo rispettiamo, non lo trattiamo come merita, non lo amiamo, chiunque sia e comunque si comporti. Siamo ciechi. Ed i fanatici della religione sono i più duri nemici dell’umanizzazione dell’essere umano. Si trovano più a loro agio nella loro cecità ed nell’alimentare la cecità di tutti noi che non riusciamo a prendere sul serio la fede nell’essere umano. E questo è l’aspetto decisivo. Nell’essere umano si è incarnato Dio ed in lui prima di tutto incontriamo Dio. Secondo il Vangelo, non possiamo credere nel dio di Gesù se non crediamo nell’essere umano. Non possiamo rivolgere la nostra attenzione a Dio se non rivolgiamo la nostra attenzione all’«essere umano». Più l’attenzione della comunità credente si centra sull’umanità, più deve confermarsi e orientarsi verso il Padre e viceversa. L’agape è autentica solo se unisce la famiglia umana in un unico orientamento vitale che asseconda l’unione sancita per sempre in Gesù Cristo morto e risorto. Non si può amare l’umanità adottata, separandola da Dio che l’adotta, né amare Dio, dissociandolo dall’umanità e dal mondo che riconcilia con Sé. Non si dà rilievo all’amore per Dio quando si vanifica quello verso le creature.
La via di carità non è un risultato spontaneo; è frutto di decisione perseverante e coerente, e soprattutto, di implorazione, di perdono, di fiducia. Si nutre di preghiera, di lode, di contemplazione. Chi ama non vive senza conflitti, ma non si lascia para¬lizzare da essi. Per tutti la vita della carità è la via della conversione permanente. Solo coloro che perseverano in essa, sperimentano la pace che ne accompagna la fruizione. Vive in carità chi vince l’odio, l’indifferenza, le paure e si impegna nel promuovere strutture di comunità che non manipolano le persone, favoriscono il bene comune, e ri¬spettano i diritti umani fondamentali. Ciò impegna a non lasciarsi bloccare dalla paura nel conflitto con le ingiusti¬zie; a mettere in discussione le false convinzioni che dan¬no sicurezza e inducono a ritenere di essere sempre e comunque nel giusto o di esserlo solo noi; a superare gli atteggiamenti dispotici che impediscono di diventare, di far¬si «prossimo» in solidarietà con tutti coloro che promuovono il bene della famiglia umana, nel conte¬sto della storia quotidiana nella quale si sviluppa la vita concreta. L’ostacolo principale all’Eucaristia è la resistenza a diventare uniti, la resistenza a vivere in carità, consapevoli che la vita in carità ne costituisce il frutto più autentico.