Guariento Mario | DOMENICA 22.11.20
Tutte le opere, i commenti, le riflessioni di Don Mario Guariento
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DOMENICA 22.11.20

20 Nov DOMENICA 22.11.20

Matteo 25,31-46

La regalità di Cristo, dal punto di vista biblico, è l’assunzione da parte del Risorto di tutta l’umanità come eredità del Padre. L’Eucaristia che celebriamo è lo spazio e il trono di questa «regalità» donata che si fa «servizio» per amore: Pane per essere mangiato e Parola per essere ascoltata e condivisa. Con la nostra povertà Cristo impasta il pane caldo del suo Regno senza fine. Cristo è re nella dimensione di Davide: Pastore, ma anche colui che riscatta con il suo amore la libertà dei propri figli. Egli è il Pastore che si carica dei peccati dell’umanità e ne fa la sua corona regale simbolo del suo regno di misericordia: egli è il Padre che ama e perdona. Gesù non basa il suo invito alla conversione sulla paura della morte e del giudizio. Egli è venuto a portare la bella notizia del Regno, quella dell’amore misericordioso di Dio che vuole tutti salvi. Il suo è un invito di nozze con il quale tutti sono invitati alla casa e alla cena di Dio nella gioia. Dio non vuole giudicare, ma salvare. Questa è l’unica sua volontà positiva. Il giudizio se lo costruisce da sé l’uomo, rifiutando l’invito di Dio e chiamandosi fuori da quella volontà salvifica. Il sole brilla per tutti, sempre pronto ad illuminare chiunque, ma chi lo rifiuta si nasconde da sé nelle tenebre e si condanna al buio dell’insignificanza e della disperazione. Gesù stesso dice: «Dio non ha mandato il suo Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui. La luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque fa il male odia la luce e non viene alla luce, perché non siano svelate le sue opere» (Gv 3,17-20).


In Gesù risuona la definitiva chiamata di Dio, nessuno può restarle indifferente. Costringe a scegliere. La morte e il Regno finale di Dio sono due eventi inseparabili, hanno in comune il fatto che segnano ambedue un confine tra questa vita e quella futura, ambedue mettono fine all’esistenza terrena. La differenza sta nel come ci si prepara a questi due eventi strettamente congiunti. Siccome poi il tempo della loro contemporanea venuta è sconosciuto e imprevedibile, la scelta del Regno di Dio non è rinviabile. Ci si deve decidere per la vita non per la morte. Ammoniva ancora Gesù: «Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima? Che cosa potrebbe mai dare un uomo in cambio della propria anima?». L’uomo si gioca tutto in questa scelta decisiva del Vangelo, è la scelta più seria che è chiamato a compiere. Di fronte ad essa tutto appare come spazzatura (Fil 3,8).

Il Qoelet direbbe che tutto è vanità. Coloro che non si accorgono di questo o che «confidano nella loro forza e si vantano della loro grande ricchezza, sono come gli animali che periscono» (Sal 49,7.12). Gesù esorta ad imboccare la strada del realismo, la strada di una vita sapiente e riuscita. Tanta gente semplice che ha vissuto la propria religiosità senza secondi fini, ma con coscienza e carità, passerà davanti ad esperti e sapienti che con i loro distinguo non si sono mai sporcati le mani, né hanno coinvolto la loro vita, ma si sono sempre assopiti nella penombra del trono del potere. In questo brano il Signore non chiederà alle persone se hanno creduto, ma se hanno amato; non chiederà se hanno offerto, ma se hanno condiviso il loro pane con l’affamato. Gesù di Nazareth è il Signore: è questo il nostro indistruttibile amore attorno al quale vogliamo legare la vita, al quale ci vogliamo aggrappare, vogliamo abbandonarci. Purtroppo, molti cristiani e fra questi, forse, ci sono anch’io, si aggrappano al Signore, perché hanno paura, ma non si abbandonano a Lui perché non lo amano, non si lasciano stringere in un abbraccio di tenerezza, non si abbandonano e non si lasciano andare. E noi a Gesù ci dobbiamo abbandonare; a Lui, ‘la fontana’, che ha un’acqua, l’unica capace di dissetarci. Chi ha sete va e beve; chi è stanco va a refrigerarsi. Ecco chi è Gesù Cristo: per ognuno ha una parola particolare. Ha per tutti una parola di tenerezza, di incoraggiamento. Noi dovremmo solo riscoprirla.

L’evangelista non si sofferma a descrivere i dettagli di un giudizio. Quello che emerge è un doppio dialogo di rivelazione che getta una luce immensa sul nostro presente, e ci apre gli occhi per farci vedere che, vi sono due modi di reagire davanti alla storia, a coloro che soffrono: ne abbiamo compassione e li aiutiamo o ci disinteressiamo e li abbandoniamo.

La parabola è, in realtà, una descrizione grandiosa della realtà finale sulla storia umana. Vi si trovano genti di ogni razza e nazione, di tutte le culture e religioni. Si ascolterà l’ultima parola che chiarirà tutto. Ciò che deciderà la verità della nostra vita non è la religione in cui uno è vissuto né la fede che ha confessato durante la sua vita. Ciò che è decisivo è vivere con compassione aiutando chi soffre e ha bisogno del nostro aiuto. Quello che si fa alle persone affamate, ai malati derelitti o ai carcerati dimenticati da tutti, lo si sta facendo a Dio stesso, incarnato in Gesù. La religione più gradita al Creatore è l’amore e la passione per l’uomo. L’amore e la passione per Dio nel cedente è la radice, la forza per essere come il Signore ci vuole: come lui dare la nostra vita per i fratelli.
Poiché Matteo non parla secondo « cate­gorie » fissate una volta per sempre, non sta a noi determinare fino a qual punto il nostro fratello è o no discepolo di Cristo, perché solo lo sguardo del Padre può rivelarlo. Gesù stesso si è chinato sui poveri e sui sofferenti, perché scopriva in essi dei discepoli in speranza, dei piccoli in crescita.

E così l’apparente indeter­minazione dell’espressione « questi miei fratelli, i più piccoli » è gravida di un’interpellanza rivolta ad ogni coscienza di uomo. Si tratta meno di imma­ginare se gli uomini che avranno accolto i loro fratelli affamati, assetati, stranieri, nudi, deboli o prigionieri, saranno o no salvati nel giorno ultimo, che di chiederci se noi, che leggiamo questo vangelo, andiamo verso gli altri perché sono già, e perché divengano sempre più discepoli del Cristo, senza attendere di avere scoperto in essi il volto definitivo di Gesù, perchéquesta rivelazione nel­l’ultimo giorno supererà ciò che noi abbiamo potuto percepire in questo mondo.

Questo momento del­l’incontro, inoltre, è diverso per ogni uomo, perché è quello in cui ciascuno prende coscienza ‑ e può essere in ogni istante ‑ che viene posto in presenza di Dio.

E’ di fronte al Padre, in Gesù risuscitato, il Cristo in gloria, che scopriamo la verità dell’uomo, chi egli è nel mistero del suo amore.

Matteo ci dice: è dalla fine che ognuno dei nostri atti assume il suo peso e la sua verità. In questo senso, si può cogliere la portata dell’appello di Gesù alla vigi­lanza: situazione di attesa attiva e di impegno, sviluppata nelle tre parabole e ri­presa in conclusione nel grande affresco finale del giudizio delle genti.

Tutta la vita è fatta di piccole aggressioni di fronte alle quali: prendiamo posizione, ci distanziamo, ci armiamo sapientemente. Da questo punto di vista possiamo dire onestamente:

Signore, è vero, non sono capace di riconoscere Te. Tu mi dai la grazia di compiere atti di carità, di generosità, ma la mia esistenza è ancora lontana dall’essere libera, gioiosa, aperta, fedele a Te in tutte le richieste, anche esorbitanti, che mi sono fatte.

Il Signore ci ispira  a metterci in  condizione di umiltà davanti alla nostra esistenza quotidiana. Allora la domanda può essere: Signore, mi dispiace proprio, ma non ti ho visto, non ti ho sentito. Perché non ti ho sentito? Era solo un momento particolare, un piccolo malinteso, oppure è il mio cuore, è qualcosa in me che mi rende opa­co, pesante, incapace di riconoscere Te? È perché non mi sono ancora convertita di cuore al Vangelo, perché cerco continuamente la mia giustizia ed il prossimo è solo un pretesto per le mie opere buone, per riconoscermi osservante; è un modo di farmi avanti, con rap­porti eleganti, equilibrati.

Qui è tutto il mondo interiore della nostra cecità che affiora: Signore, ho occhi e non vedo, ho orecchie e non sento e passo in mezzo al mondo come se Tu non ci fossi. Fa che io possa dirti: Tu sei qui e questo mi basta.