02 Ott DOMENICA 04.10.20
Matteo 21, 33-43
Il testo attribuito a Mt 21, 40-46 della parabola odierna è frutto di un’applicazione successiva a opera della comunità cristiana. Dopo la morte di Gesù, infatti, e di fronte a fatti nuovi e sconcertanti come il rifiuto di Gesù-Messia da parte della maggioranza dei Giudèi, la comunità cristiana allegorizzò completamente le parole di Gesù, trasformandole in una «teologia della storia».
Senza equivoci e senza paura possiamo affermare che Dio stesso è la guardia del corpo del popolo-vigna. Questo dato ci conforta e ci consola: nessuna situazione può essere così pesante, fino al punto di distruggere la vigna. Dio veglia e non permette che il suo popolo sia ridotto a un deserto, come garantisce il salmista: «Non s’addormenterà il tuo custode. Non si addormenterà, non prenderà sonno il custode d’Israele. Il Signore è il tuo custode, il Signore è come ombra che ti copre» (Sal 121,4-5).
Quando il vangelo è messo per iscritto nella forma che possediamo oggi, l’autore sviluppa l’allegoria per spiegare i motivi della morte di Gesù e le sue conseguenze, facendo perno sul Sal 118 che la liturgia ebraica proclamava nel grande Hallèl pasquale. La folla poche ore prima aveva fatto ricorso a questo salmo per osannare Gesù nel suo ingresso trionfale in Gerusalemme: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore». Mettendo insieme questo salmo con il rifiuto di Gesù e la sua morte, Mt afferma che il compito messianico di Cristo e la sua gloria devono passare attraverso la sofferenza e la morte.
È la logica del nuovo ordine delle cose: ciò che è scartato diventa elemento essenziale della costruzione, ciò che è morto diventa inizio della vita. Il pane spezzato è il nutrimento dei dispersi, il vino versato è la bevanda degli assetati della giustizia del regno.
Mt 21,39 però, aggiunge anche qualcosa di nuovo: la pietra angolare scartata dai vignaioli è accostata alla morte inflitta al «Figlio» che si compie fuori della città di Gerusalemme: «E, presolo, lo cacciarono fuori della vigna e l’uccisero»: «fuori» vuol dire un altro luogo, un altro popolo, un altro sacrificio, un’altra e nuova storia in cammino.
Uccidendo Gesù, gli Ebrei lo escludono dalla città santa, ma è vero anche il contrario: Gesù lascia la città santa che rimane orfana del suo Signore ma in essa non scorre il sangue perché nemmeno nell’ora più buia del tradimento, l’ora della morte, essa può essere macchiata dal sangue del suo Messia. Con questo versetto Mt inaugura la nuova ecclesiologia fondata sulla misericordia. Gesù si fa carico delle nostre responsabilità e del nostro peccato e con il suo folle amore trasforma il nostro peccato in salvezza. L’Eucaristia ci insegni a verificare la qualità della nostra vita perché noi siamo la vigna che il Signore cura per produrre il vino dell’alleanza e per produrlo in abbondanza non solo per noi, ma per quanti abbiamo la grazia d’incontrare lungo il nostro cammino.
La più grande tragedia che può accadere al cristianesimo di oggi e di sempre è che si uccida la voce dei profeti, che i sommi sacerdoti si sentano padroni della «vigna del Signore» e che, noi tutti, cacciamo «fuori» il Figlio, soffocandone lo Spirito. Se la Chiesa non corrisponde alle speranze che il suo Signore ha riposto in lei, Dio aprirà nuove vie di salvezza in popoli che producano frutti.
Ogni cristiano può correre il rischio di deludere le aspettative di Dio.
La verità, la fedeltà, sono un bisogno primario del cuore umano. Sono molte le forme che assume questo bisogno di verità, i fedeltà su noi stessi, sul cuore e le azioni di chi amiamo, sulle fedi e gli ideali che hanno edificato e nutrito la nostra esistenza. Una di queste è l’urgenza vitale, che un giorno arriva all’improvviso, di verificare se siamo finiti dentro una grande auto-illusione. Questa esperienza è molto comune in chi da giovane ha fatto scelte radicali, ha creduto in una grande promessa, ha seguito una voce che chiamava verso una terra nuova. In queste persone, religiose e laiche, un giorno, per le ragioni più diverse, si può insinuare il dubbio che la realtà di ieri fosse solo vento o sogno. Se alla vita abbiamo chiesto poco, questo momento non arriva, ma si presenta quasi sempre quando le abbiamo chiesto molto negli anni più belli dell’entusiasmo grande. Qualche volta il processo di messa alla prova del dubbio ci fa approdare alla scoperta che il grande auto-inganno era solo apparente, che quanto ci era apparso fantasma era solo l’ombra di una presenza vera. Altre volte finiamo invece per accorgerci che ci siamo ingannati veramente, per molto tempo, su molte cose importanti. Il libro di Qohelet ci ha detto, e continua a ripeterci, che questo secondo approdo della ricerca non solo non è fallimento, ma è una cosa molto buona.
Perché è meglio una vita vera delusa che una vita illusa, è meglio una verità amara di un auto-inganno dolce. La sua sapienza è essenzialmente un dono per aiutarci a liberarci dalle illusioni. Se la verità ha un valore in sé, allora le illusioni deluse sono da preferire alle certezze illuse. Le illusioni sono intrecciate con le verità più belle della nostra vita. Sono annidate dentro i nostri talenti, è zizzania cresciuta troppo attorno al primo grano buono. Sono maturate insieme a noi, hanno indossato maschere ricalcate sui volti delle persone migliori della nostra vita, si sono nutrite dei nostri carismi più belli. Per questo per liberarci dalle illusioni occorre tempo e costanza, se vogliamo arrivare alla fine del processo e non fermarci troppo presto, appagati dai primi e più semplici risultati. La sola possibile vittoria sulla vanità delle cose in questa terra è riuscire a morire e risorgere mentre si è ancora vivi. Questa morte-resurrezione può arrivare in molti modi, alcuni luminosi, altri bui. Qualche volta prende le forme di un superamento di una grave sconfitta. Altre volte, prende la forma della vittoria. L’impegno di ogni discepolo del Signore è allora quello di non deludere le attese e speranze che il Signore ha posto nel nostro cuore e di non lasciare cadere per paura o per egoismo la domanda di collaborazione che egli ha fatto alla nostra persona.
Ogni discepolo per essere autentico, avere la capacità di maturare progetti di vita evangelica, è necessario coltivi in sé tre grandi atteggiamenti: l’atteggiamento del servitore diligente.Questo è proprio di chi si è impegnato con il Signore e con se stesso a vivere bene la preghiera, l’ascolto, il silenzio e vive con equilibrio le sue relazioni anche quando non ricava gioia dalla sua diligenza. Per questo è necessario essere amante delle essenzialità.
Il secondo atteggiamento è quello dell’amico fedele. E’ l’atteggiamento di colui che cerca di entrare nelle intenzioni del Signore e dice: Signore che cosa vuoi oggi, qui da me? Questo atteggiamento ci mette sempre in una amorosa ricerca di disponibilità obbedienziale al Signore e di accoglienza amorosa dei fratelli. Il terzo atteggiamento e quello dell’innamorato estatico.Non possiamo ottenere con le sole nostre forze la crescita e la maturazione della vita cristiana e della fedeltà alla sua chiamata. Questo atteggiamento ci fa dimenticare le nostre stanchezze, fatiche, preoccupazioni per entrare nella gioia del Signore e soprattutto apre il nostro cuore alla totale accoglienza del suo amore.
La ragione di questa esclusione sta nella scelta diversa: di fronte a Giovanni che predicava un capovolgimento, scribi e farisei non hanno fatto una piega; davanti alla stessa predicazione, peccatori e prostitute hanno creduto, accogliendo l’invito.