30 Ott DOMENICA 01.11.20
Matteo 5, 1-12
La memoria di Tutti i Santi è la festa dell’universalità della fede, la Chiesa dà forza teologica a questa realtà, facendo menoria di «tutti i Santi e di tutte le Sante del cielo e della terra» senza differenze, come dice la lettura tratta dall’Apocalisse: «Apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua». Nessuno è straniero, ma tutti siamo cittadini; tutti siamo figli di un solo Padre e quindi figli in una sola famiglia; nessuno è di un’altra razza, ma tutti siamo cittadini del mondo; nessuno è superiore perché tutti siamo figli del «Padre», del dolore, della gioia e della speranza. Oggi è il giorno dell’universalità per eccellenza. Il richiamo alla «santità» non fa riferimento a un «modello eroico» di vita, ma alla condizione ordinaria della vita cristiana. È la coerenza all’interno di una relazione che si fonda sulla coscienza di vivere in ogni condizione di esistenza, indipendentemente dai condizionamenti di qualunque genere, un rapporto privilegiato di Dio che si manifesta nella vita di ciascuno. Nessuno è chiuso all’azione di Dio, ma tutti siamo chiamati a rendere visibile e credibile il volto di Dio attraverso la nostra credibilità. In questa prospettiva nessuno è estraneo a Dio e nessuno può essere privato dell’Eucaristia che è «il pane del cielo dato per la nostra fame» come nutrimento per portare insieme i pesi. Davanti a Dio che è «Padre nostro» possiamo stare solo a condizione di riconoscere e accettare gli altri, tutti, come nostri uguali con gli stessi diritti e gli stessi doveri, consapevoli che essere cristiani significa riconoscere che Gesù è un Giudèo, un emigrante, un perseguitato, un ricercato, un morto ammazzato con l’accusa di essere un sobillatore.
La liturgia si apre con il testo matteano delle Beatitudini. La prima reazione che si ha nel leggere queste affermazioni secche e determinate, induce a pensare a una «contraddizione» che può sembrare anche un’assurdità. Da una parte la «felicità» è scontata per alcune categorie di persone, dall’altra, lascia interdetti abbinare la «beatitudine» a condizioni di vita che «oggettivamente» sono la negazione di qualsiasi «felicità», perché sono lo stato dell’inferno in vita. Come si può dire «beato» il povero, l’afflitto, l’affamato, senza essere accusati di stare «fuori dalla storia»? Da sempre la felicità è sinonimo di ricchezza come infelicità lo è di povertà. È necessario prendere coscienza di questa «distanza» se vogliamo cogliere la novità del vangelo, altrimenti si scade nella posizione di chi afferma che esso sia un bell’ideale, ma irrealizzabile in terra.
Beati non vuol dire felici, nel senso che diamo noi normalmente al termine, ma vuol esprimere ciò che provano quelli che hanno colto nel segno il senso vero dell’esistenza… Questa non è un’utopia! Dobbiamo aspirare a questo, e se la religione non ci aiuta essa non serve più. La religione non deve solamente aiutarci a soddisfare il nostro bisogno di protezione e di sacralità, ma deve educarci, formarci, trasformarci. L’ideale non è di moltiplicare i culti, l’ideale vero è quello di raggiungere la somiglianza col Padre». La santità è incontrare Dio che è presente in tutte le persone che incontriamo sul nostro cammino, chiamarlo per nome e farlo entrare nel nostro cuore e nel nostro affetto, perché Dio è uno solo, ma presente in tutti. È questo il segno della santità cristiana che diventa fede in Dio e accoglienza di uomini e donne in un cammino di speranza per costruire un presente e un futuro di amore. La santità è imitare Dio che si fa prossimo degli ultimi e tra gli ultimi dei più ultimi. Le beatitudini che proclamiamo non sono altro che l’attuazione del progetto di Dio. «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi… Se siamo credenti, andiamo nel mondo e imitiamo il Signore, se non siamo credenti, facciamo lo stesso perché questa è la misura della civiltà, senza aggettivi e sconti. Non è difficile tracciare il profilo di una persona felice nella società conosciuta da Gesù. Si trattava di un uomo adulto e in buona salute, sposato con una donna onesta e feconda, con figli maschi e delle terre ricche, osservante della religione e rispettato nel suo paese. Che si poteva chiedere di più? Certamente non era questo l’ideale che animava Gesù. Senza sposa né figli, senza terre né beni, impegnato a percorrere la Galilea come un vagabondo, la sua vita non rispondeva a nessun tipo di felicità convenzionale. Il suo modo di vivere era provocatorio. Se era felice, lo era in maniera contraria alla cultura corrente. In realtà, non pensava molto alla propria felicità. La sua vita ruotava piuttosto intorno a un progetto che lo entusiasmava e lo faceva vivere intensamente. Lo chiamava «regno di Dio». A quanto sembra, era felice quando poteva rendere felici gli altri. Si sentiva bene rendendo alla gente la salute e la dignità che le erano state tolte ingiustamente. Non cercava il proprio interesse. Viveva creando nuove condizioni di felicità per tutti. Non riusciva a essere felice se non comprendeva gli altri. A tutti proponeva criteri nuovi, più liberi e radicali, per creare un mondo più dignitoso e felice. Credeva in un «Dio felice», il Dio creatore che guarda tutte le sue creature con amore sviscerato, il Dio amico della vita e non della morte, più attento alla sofferenza della gente che ai suoi peccati. Partendo dalla fede in questo Dio, rompeva gli schemi religiosi e sociali. Non predicava: «Felici i giusti e i devoti, perché riceveranno il premio di Dio». Non diceva: «Felici i ricchi e potenti, perché ne riceveranno la benedizione». Il suo grido era sconcertante per tutti: «Felici i poveri, perché Dio sarà la loro felicità». L’invito di Gesù dice questo: «Non cercate la felicità nel soddisfacimento dei vostri interessi o nella pratica interessata della vostra religione. Siate felici operando in modo fedele e paziente per un mondo più felice per tutti». Se qualcosa appare chiaro nelle beatitudini è che Dio è il Dio dei poveri, degli oppressi, di quelli che piangono e soffrono. Dio non è insensibile alla sofferenza. Non è apatico. Dio «soffre dove soffre l’amore». Per questo il futuro progettato e voluto da Dio appartiene a coloro che soffrono, perché difficilmente c’è un posto per loro nella società o nel cuore dei fratelli. Sono diversi i pensatori che credono di osservare un aumento crescente dell’apatia nella società moderna. Sembra che stia crescendo la nostra incapacità di percepire la sofferenza degli altri. È l’atteggiamento di chi è cieco al dolore. È l’intorpidimento di chi rimane insensibile davanti alla sofferenza. In mille modi evitiamo la relazione e il contatto con chi soffre. Eleviamo muri che ci separano dall’esperienza e dalla realtà della sofferenza altrui. Ci manteniamo il più lontano possibile dal dolore. Abbiamo ridotto i problemi umani a numeri e dati. Contempliamo la sofferenza altrui in forma indiretta, attraverso lo schermo televisivo. Corriamo ciascuno alle nostre occupazioni, senza avere il tempo di fermarci davanti a chi soffre. In mezzo a questa apatia sociale diventa ancora più significativa la fede cristiana in un «Dio amico dei sofferenti», un Dio crocifisso, che ha voluto soffrire insieme agli abbandonati di questo mondo. L’unica cosa che interessa a Dio è il nostro bene. Dio vuole la nostra felicità non solo dopo la morte, ma già ora, in questa vita. Perciò è presente nella nostra esistenza accrescendo il nostro bene, mai il nostro male. Dio ci è vicino, appoggiando la nostra lotta per una vita più umana e attraendo verso il bene la nostra libertà. Convertirsi a Dio significa orientare la propria libertà verso un’esistenza più umana, più sana e, in definitiva, più felice, anche se esige sacrifici e rinunce. Verso la felicità si cammina con cuore semplice e trasparente, con fame e sete di giustizia, operando per la pace con indole di misericordia, sopportando il peso del cammino con mansuetudine. La via disegnata nelle beatitudini porta a conoscere già su questa terra la felicità vissuta e sperimentata dallo stesso Gesù.