Guariento Mario | DOMENICA 20.06.2021
Tutte le opere, i commenti, le riflessioni di Don Mario Guariento
guarientomario, gauriento, don guariento, guariento mario, mario guariento, liturgia guariento
856
post-template-default,single,single-post,postid-856,single-format-standard,ajax_fade,page_not_loaded,,vertical_menu_enabled,side_area_uncovered_from_content,qode-theme-ver-7.6.1,wpb-js-composer js-comp-ver-5.2.1,vc_responsive
 

DOMENICA 20.06.2021

21 Giu DOMENICA 20.06.2021

Marco 4, 35 – 41

La lotta descritta nelle letture di oggi è una lotta mistica tra Dio e le potenze del male: a questo combattimento spirituale siamo ammessi anche noi perché ogni giorno dobbiamo solcare il mare agitato della vita che ci obbliga a scelte, errori e anche a tradimenti e cedimenti. Facendo sosta al monte di Dio che è l’Eucaristia, riprendiamo in mano la nostra bussola per camminare secondo coscienza Non può esserci combattimento senza equipaggiamento adeguato e la nostra lotta non è contro qualcuno o qualcosa, ma un percorso di purificazione per costruire la pace in noi stessi, con gli altri e con Dio. L’equipaggiamento per la nostra lotta spirituale è il perdono di Dio che ci restituisce alla nostra integrità, alla nostra dignità perché essa è capace per il sostegno dello Spirito Santo di riconoscere la propria fragilità e la grandezza di Dio. Dal profondo del cuore chiediamo perdono per i nostri peccati. “Il racconto della tempesta sedata comprende l’ora della tempesta e del naufragio, è l’ora della inaudita prossimità di Dio, non della sua lontananza. Là dove tutte le altre sicurezze si infrangono e crollano e tutti i puntelli che reggevano la nostra esistenza sono rovinati uno dopo altro, là dove abbiamo dovuto imparare a rinunciare, proprio là si realizza questa prossimità di Dio, perché Dio sta per intervenire, vuol essere per noi sostegno e certezza. Egli distrugge, lascia che abbia luogo il naufragio, nel destino e nella colpa; ma in ogni naufragio ci ributta su di Lui. Questo ci vuole mostrare: quando tu lasci andare tutto, quando perdi e abbandoni ogni tua sicurezza, ecco, allora sei libero per Dio e totalmente sicuro in Lui. Che solo ci sia dato di comprendere con retto discernimento le tempeste della tribolazione e della tentazione, le tempeste d’alto mare della nostra vita! In esse Dio è vicino, non lontano, il nostro Dio è in croce. La croce è il segno in cui la falsa sicurezza viene sottoposta a giudizio e viene ristabilita la fede in Dio.” Dietrich Bonhoeffer.

In quel giorno, venuta la sera, disse Gesù loro: «Passiamo all’altra riva». La riva è sempre dall’altra parte, è necessario che siamo disposti a «passare» le acque, cioè l’instabilità, l’insicurezza, la fragilità, l’incertezza, la paura di affogare, la mancanza di forze o forse di coraggio: in una parola, superare noi stessi. «Passare all’altra riva», significa non fermarsi e non smarrirsi su ieri e sul passato su cui non abbiamo alcun potere, ma assumere la dolcezza intrigante dell’avventura del domani e cominciare ad esplorare la vita che non c’è ancora, nel segno dello Spirito che guarda al Regno di Dio non al teatro delle debolezze umane. «Passare oltre» è anche il nome di «Pasqua», dunque è un comandamento di risurrezione, un’esigenza della vita e una vocazione alla disponibilità dell’accoglienza di ciò che la Provvidenza ci propone. Lasciando la folla, lo portarono via così com’era, nella barca, mentre stavano altre barche con lui. Gesù non ha niente da portare con sé, se non se stesso: «lo presero con sé così com’era». Egli non è appesantito da bagagli e da bisogni: il suo bisogno è «andare all’altra riva», avanti a sé, nella barca, dove può anche apparire assente, se non si sa cogliere la sua presenza e le esigenze del suo essere. Per sfuggire all’inganno dell’illusione, è necessario avere qualcuno che «ci prenda con sé e ci porti sulla barca». Da soli possiamo più facilmente sbagliare, ma se altri si prendono cura di noi, allora è facile salvarsi. Nei momenti di fallimento, bisogna anche sapersi lasciar condurre da altri, affidandosi. Noi, ciascuno di noi, siamo i custodi dell’altro che è grazia, «la parte migliore di noi». Custodendo l’altro nella barca, negli affetti, nella relazione, nell’amore, nel dovere, nell’amicizia, noi custodiamo il cuore di Dio e diventiamo «padri/madri» di quanti incontriamo. Allora sopraggiunse una forte tempesta di vento; le onde si scagliavano contro la barca tanto che ormai era piena. Questo versetto pone il problema della presenza di Dio che il nostro ateismo religioso semplifica con la convinzione che Dio dovrebbe intervenire come un orologiaio ad aggiustare le cose della natura e gli errori degli uomini. Quando si dice: se Dio è Padre, non dovrebbe permettere questo o quello, il dolore, la sofferenza, i cataclismi, noi non siamo consapevoli della bestemmia che stiamo pronunciando, ma affermiamo la nostra incapacità di credere. Noi abbiamo bisogno di un «dio-jukebox» pronto a cantare la canzone che volgiamo, pigiando un tasto. La presenza di Dio nella barca della vita e della chiesa non ci risparmia il cammino personale della nostra storia e del nostro percorso di maturazione con la fatica che comporta e le regole insite nella vita stessa che è vita «umana», cioè limitata, caduca, mortale. Essere cristiani non ci mette al riparo dalle tempeste e dalle bufere che possono anche sovrastarci. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Il versetto è drammatico: mentre tutto attorno parla di paura e di pericolo mortale, l’evangelista sottolinea il contrasto di un Gesù che se ne sta a poppa, cioè in fondo alla barca, dietro a tutti. Quasi indifferente e disinteressato a quanto accade. Non solo, se ne sta anche «sul cuscino», che è un non senso in questo contesto. Una barca di pescatori non porta un cuscino per riposare comodi; la barca è sporca, piena di salsedine e nessuno porterebbe un cuscino in essa. Poiché è inverosimile, bisogna fermarsi e interrogarsi sul senso «nascosto» che l’evangelista vuole esprimere.    Il cuscino è un termine che indica ciò che si mette sotto la testa di un defunto. In questo contesto, allora il cuscino e il sonno di Gesù sono un riferimento anticipato alla sua morte e alla sua lontananza: verrà veramente un giorno in cui Gesù non ci sarà più fisicamente e regnerà l’angoscia della persecuzione. Qui l’episodio è un’evidente riflessione post-pasquale, quando ci si interroga in che modo Gesù assente fisicamente possa essere presente nella storia. Come a dire: il Signore è morto, se n’è andato, noi siamo soli in balia delle onde: chi ci salverà? Perché il Signore ci abbandona e non interviene? È il dramma che si consuma nella storia. Allora lo svegliano e gli dicono: “Maestro, non t’importa che moriamo?”.

Il testo greco usa il verbo al presente che dona vivacità e contemporaneità all’azione di chi legge: «Lo svegliano» (lo risorgono). Non è sufficiente per loro la presenza assente del Signore, essi lo vogliono vedere all’opera e quindi non si rassegnano alla sua morte. Quando non ci si rassegna per pavidità o interesse si è sempre fautori di risurrezione per gli altri. Gli apostoli sembrano dire: come facciamo adesso che tu non ci sei? È un’accusa a Dio di non occuparsi di loro. Essi hanno ancora un senso materialistico della fede. Questo verso dice la fatica che vissero gli apostoli nel loro cammino di fede prima di interiorizzare la risurrezione e la presenza di Gesù nella dinamica delle proprie responsabilità. Solo dopo la Pasqua con l’irruzione dello Spirito Santo, capiranno che sono essi i responsabili dell’«Assenza-presente» del Signore Gesù attraverso il sacramento della testimonianza.