11 Dic DOMENICA 13.12.20
TERZA DOMENICA DI AVVENTO
Giovanni 1,6 – 8.19 – 28
Il vangelo ci presente la figura del Precursore come spartiacque tra il mondo delle tenebre e il mondo della luce attraverso una conversazione drammatica e scaltra da parte di Giovanni Battista. Egli, infatti, non solo riesce a non rispondere ai suoi interlocutori, mandati dai capi religiosi a verificare la novità del battesimo di penitenza, ma sa anche depistare la loro attenzione da sé per indirizzarla sul Messia. Giovanni non attira a sé e non fa concorrenza, ma conduce a colui che è in mezzo a loro e che loro non conoscono. Non basta cercare per trovare, bisogna anche saper cercare.
Se vogliamo incontrare Dio, dobbiamo conoscere noi stessi. Per tre volte Giovanni dice di non essere quello che gli altri pensano che egli sia e infine quando gli chiedono «Che cosa dici di te stesso?» risponde di essere solo la voce anonima che annuncia uno più forte di lui. Egli sa perfettamente di essere la voce, ma contemporaneamente sa anche di non essere il Cristo, Elìa o il profeta. Non si appropria di funzioni non sue, né si sminuisce per paura o per convenienza: egli è se stesso, solo e semplicemente se stesso: davanti alle folle, davanti ai capi, davanti al «più forte», davanti alla sua coscienza.
La domanda posta dalla commissione d’inchiesta a Giovanni “Chi sei tu?”, è la domanda che attraversa la storia di ciascuno di noi, perché ci obbliga all’individuazione della nostra identità. In altre parole: io devo sapere chi sono. Non basta avere opinioni, o formule precostituite (Elìa, il profeta), bisogna sapere chi si è, avere un contatto vero e coerente con se stessi, se vogliamo vivere la nostra vita nell’autenticità e nella verità. La commissione d’inchiesta viene dal tempio, inviata dai farisei, cioè dai custodi delle tradizioni, del culto, della spiritualità, della liturgia, della regola: sono gli specialisti del sacro. Noi siamo specialisti della vita religiosa, perché poniamo Dio nel mezzo dei nostri discorsi, dei nostri ragionamenti e delle nostre aspirazioni. C’è il rischio d’identificarci con Lui e di contrabbandare la nostra volontà con la sua e quindi di chiuderci alle «gioiose notizie» che ogni giorno ci invia attraverso gli avvenimenti che viviamo, anche quelli che a noi sembrano banali o insignificanti.
La domanda Chi sei tu? è personale e acquista un senso nuovo e dirompente: «Perché ho fatto questa scelta di vita, questo lavoro, questi impegni? A volte, può succedere che le persone che vengono a contatto con noi, tendano a considerarci migliori degli altri. Non dobbiamo illudere con le apparenze: la nostra consistenza è semplicemente nell’essere noi stessi, sempre, ovunque con chiunque. Anche se questo comporta incomprensione, giudizi, etichettature, esclusione. Forse è possibile che di fronte agli altri non sappiamo cosa rispondere, ma quando rientriamo nel segreto della nostra stanza, là dove non possiamo né barare né nasconderci, perché «il Padre tuo, che vede nel segreto» ci obbliga a rispondere alla verità di noi stessi: «Chi sono io?».
Resta solo lo spazio per una «voce che grida nel deserto». Alla scuola di Giovanni il testimone, s’impara ad «ascoltare il silenzio» perché Dio sa parlare solo le parole del cuore e il cuore parla senza parole.
Essere voce! Forse è qui il mistero della vocazione cristiana. La voce è consistente finché contiene e trasmette il messaggio della Parola e, se non ha contenuto, è solo un suono vuoto e vacuo. La voce mette solo in relazione chi parla e chi ascolta. È un soffio, anche quando grida, perché dice la fragilità di chi la usa.
Nel monastero della nostra esistenza, siamo chiamati a essere questa voce a livelli diversi: sono voce che grida a livello individuale. Sperimento la distanza tra quello che dico di essere e quello che vorrei essere; tra la mia realtà e il mio ideale; tra il mio quotidiano e il sogno della mia libertà; tra gli idoli che riempiono la mia vita e il Dio di Gesù Cristo. Allora nel silenzio della notte, nella solitudine dell’essere, nel colloquio della preghiera io sono voce che grida: «dagli abissi gridai a te, Signore. Ascolta la mia voce!» «Io grido a te: salvami!». Sono voce che grida nel deserto del mondo, quel mondo che urla bisogni di schiavitù per rendere uomini e donne sempre più alienati da se stessi, assetati di denaro e di potere.
Sono voce che grida nel deserto dell’orgoglio e dell’autosufficienza per intercedere la compassione e la misericordia di Dio perché tutti gli uomini e le donne si salvino nel nome del Signore Gesù. – Sono voce che grida nel deserto della desolazione, come Abramo che lotta con Dio nel silenzio della notte per pretendere la salvezza, in nome di un pugno di giusti.
– Sono voce corale di lode e di gioia che raccoglie tutte le voci gioiose, sparse per il mondo, per stare davanti a Lui e perdere tempo con Lui, secondo il costume degli innamorati che hanno tempo soltanto per il tempo dell’amore. Io sono solo una voce, attento al richiamo dell’amore, per rispondergli subito e andargli incontro, nel convito d’amore: “Una voce, il mio diletto! Eccolo, viene…” (Ct 2,8).
In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete (Gv 1,26)
È in mezzo a voi, non fuori di voi, non accanto, non nelle vicinanze, non in un angolo: Egli sta al centro di voi stessi, è il centro del vostro esistere e del vostro vivere. Parafrasando gli angeli della risurrezione, potremmo dire: non cercate fuori di voi, colui che vive dentro di voi. Eppure, spesso lo cerchiamo oltre e al di là della nostra vita, illudendoci di trovarlo in chiesa, in coro, nella liturgia, nei riti, nella preghiera meccanica, senza sapere o facendo finta di sapere che questi sono luoghi della Presenza per se stessi. Possono esserlo, ma a condizione che ciascuno prima abbia attraversato il pozzo profondo del proprio essere, là dove soltanto la solitudine dell’anima può mettere in contatto con la Presenza nascosta di colui che vive in mezzo all’identità di ognuno e ne svela il volto e la bellezza.
In mezzo a voi sta uno! La sua presenza è nel cuore stesso di questa comunità eucaristica, della nostra famiglia, delle nostre amicizie, ciascuno è sacramento visibile dell’invisibile e strumento di comunicazione e di partecipazione. Egli sta in mezzo per farsi condividere, per farsi ancora spezzare dall’amore di quanti partecipano al banchetto della comunità, mettendo se stessi sul banchetto della fraternità e sulla mensa dell’Eucaristia. Se Lui è in mezzo a noi, bisogna riconoscerlo! Eppure, «voi non lo conoscete!». È estraneo pur restando «in mezzo», uno sconosciuto, pur essendo presente! Se non siamo in grado di conoscerlo, significa che c’è un impedimento alla vista. Per recuperare la vista della conoscenza, bisogna interrogare il cuore, perché solo il cuore sa vedere e scrutare i moti d’amore, come avviene ai discepoli di Èmmaus: «Allora si aprirono i loro occhi e lo riconobbero. La conoscenza è data dalla vista, cioè dalla sperimentazione dell’amore che si traduce in fraternità condivisa e partecipata, vissuta con gesti, atteggiamenti e parole di tenerezza che diventano accoglienza dell’altro/a com’è, senza pretendere nulla in cambio. Allora la voce e la mia vita, diventano parola incarnata che testimonia davanti al mondo che il Signore mi abita e io mi lascio abitare dalle sue presenze che sono il volto, il cuore e i sentimenti dei miei fratelli e delle mie sorelle, gli avvenimenti del mondo, i segni dei tempi.