Guariento Mario | DOMENICA 27.09.20
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DOMENICA 27.09.20

28 Set DOMENICA 27.09.20

Matteo 21, 28-32

Gesù si trova all’interno del tempio e si rivolge ai «capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo» che sono identificati nel figlio del «no»: essi lodano Dio a parole, ma lo evitano nella vita. Altre volte Gesù si era rivolto a loro.  La parabola dunque è rivolta ieri come oggi in modo particolare a coloro che hanno responsabilità di guida, e li identifica come specialisti della forma e negatori della verità interiore. Essi si scandalizzano dell’agire di Dio e lo vogliono imbrigliare nelle loro ristrette categorie, escludendo le persone che non sono di loro gradimento. Sono coloro che pensano di poter insegnare a Dio e tentano di ridurlo a semplice ingranaggio dei loro disegni di potere. È facile dire «questa è la volontà di Dio» per imporre la propria visione di Chiesa o di etica o di liturgia senza sperimentare la fatica della ricerca e del travaglio che hanno tempi di maturazione differenti da persona a persona. 

Sono una disgrazia per la chiesa e per l’umanità! Condannano le prostitute perché rendono indecorose le strade, ma non guardano mai le prostituzioni con cui convivono in tutti i loro traffici e le prostituzioni che hanno commesso per fare carriera e per giungere al potere. «I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio»: gli esclusi dal tempio ufficiale rispondono all’appello di Dio e accolgono il vangelo di misericordia diventando modello di accoglienza, sconvolgendo così le teorie e «i princìpi» su cui si fonda l’istituzione. Gli ultimi, gli scartati prendono il posto delle autorità nel Regno di Dio.

La ragione di questa esclusione sta nella scelta diversa: di fronte a Giovanni che predicava un capovolgimento, scribi e farisei non hanno fatto una piega; davanti alla stessa predicazione, peccatori e prostitute hanno creduto, accogliendo l’invito.

La liturgia formale e asettica che si auto-celebra nel tempio, prende a pretesto la Gloria di Dio per mettere in atto la passerella della vanagloria degli uomini che amano addobbare se stessi. Essi innalzano un muro d’incenso invalicabile che riesce a nascondere Dio ai peccatori e questi a Dio. 

Già Sant’Antonio da Padova (1190 -1231) tuonava da par suo contro prelati effeminati e agghindati come bambole: «Che cosa dirò degli effeminati prelati del nostro tempo, che si agghindano come donne destinate alle nozze, si rivestono di pelli varie, e le cui intemperanze si consumano in lettighe variopinte, in bardature e sproni di cavalli, che rosseggiano del sangue di Cristo?»

L’uomo di Dio aspira a vivere anche un solo giorno nell’atrio del Signore piuttosto che mille nelle case degli empi (Sal 84,11), perché ha coscienza della propria pochezza e si addossa alla parete di fondo del tempio ripetendo come un mantra dell’anima: Pietà di me, o Dio, nella tua misericordia; pietà di me peccatore (Sal 51,3; Lc 18,13).

È il rovesciamento delle situazioni: mentre i sacerdoti si rinchiudono nel tempio, trafficando con pizzi e merletti e disquisendo sulle liturgie e sui rituali, credono di onorare Dio, invece alimentano e moltiplicano le tradizioni degli uomini e oscurano la Parola di Dio, costringendo Dio a ritirarsi nel suo cielo perché per lui non c’è posto nel consorzio umano.

Dio non ha rigettato Israele che resta il suo popolo eletto, ma Israele dopo avere detto «sì» alla Toràh, di fatto ha vissuto in modo tale da trasformarlo in un «no» al Vangelo che avrebbe dovuto essere il suo compimento naturale. Questa parabola interpella la comunità cristiana in ogni sua componente; essa inchioda ciascuno alla propria responsabilità morale, perché in ogni momento possiamo essere i figli della contraddizione. 

L’Eucaristia è la forza che nutre la nostra capacità e volontà di aderire alla volontà del Padre superando ogni interesse particolare e momentaneo per essere figli dell’obbedienza e della testimonianza credibile.

La liturgia di oggi pertanto ci dice che è necessario vivere le conseguenze logiche che ogni scelta e ogni comportamento esigono. Il credente non si ferma alla superficie e alle buone intenzioni, ma scende in profondità per essere in grado di porre a confronto il modo di essere di Dio e quello dell’uomo anche nelle scelte di vita. Il credente sa che dal suo comportamento, più che dalle sue parole, dipende la credibilità stessa di quel Dio in cui afferma di credere, in quanto lo sperimenta in sé più intimo di quanto possa immaginare. L’agire è conseguenza logica del modo d’essere, l’esito visibile del mondo interiore, spesso nascosto anche a noi stessi. È necessario conoscere «chi siamo» per capire come ci comportiamo. Il compito e l’impegno più difficili per un credente, ma anche per ogni persona ragionevole, sono la tensione all’unità interiore: esso riguarda ciascuno di noi nel cammino verso la sintesi armonica dell’essere e dell’agire. La ricerca dell’unità interiore è l’obiettivo dell’esistenza di ciascuno: tutta la vita, dalla nascita alla morte, è un costante tentativo di fare coincidere, mettere a fuoco, sovrapponendole, le tante facce della nostra identità. Quando la nostra parola diventerà la nostra vita vissuta e la nostra vita vissuta sarà la nostra parola, suprema comunicazione, allora e solo allora, possiamo cominciare il cammino dell’unità interiore. L’unità del nostro cuore e della nostra vita è il fondamento di ogni forma di convivenza. Non è sufficiente nemmeno scendere in profondità del nostro essere ma, una volta raggiunta la nostra identità interiore, occorre fare un passo ancora e abitare il pozzo profondo del nostro io a quel livello d’intimità che solo sa rivelare il nostro «nome» e la presenza di Dio.

Il vangelo oppone due tendenze: le parole dette e le scelte di vita. Le parole finalizzate a se stesse svaniscono subito perché sono un guscio vuoto. Chi è superficiale getta parole al vento, senza sapere che ogni parola ha un’anima e un corpo e possiede una vita che non può essere dilapidata. Ogni parola che pronunciamo è preziosa e lascia sempre il segno. Gli Ebrei hanno l’usanza di arricchire ogni parola della Bibbia con piccole coroncine ornamentali perché ogni parola è una regina che, nella sua bellezza, avanza verso di noi come la sposa procede verso lo sposo. Sì, possiamo dire con vigore e dolcezza che ogni parola è una persona con un corpo visibile e decifrabile, le singole lettere, e un’anima viva e palpitante, il significato.

Tutto ciò vale anche per la vita di fede: non basta dire di credere, bisogna credere. Non basta nominare Dio e mitragliare preghiere vocali, bisogna somigliare a Dio. Non basta praticare la religione del dovere, bisogna vivere la fede della fiducia che si abbandona, esponendola al rischio della nostra fragile testimonianza, ma che è il più grande dono che ciascuno di noi può fare all’umanità intera: il dono della parola divenuta vita.

La parabola che il vangelo odierno ci presenta, può essere definita la parabola dei figli della contraddizione. Descrive, infatti, in modo lapidario, un «no» conclamato che diventa «sì» di fatto e un «sì» deciso che con noncuranza diventa «no» pratico. La Parola ci invita a fare un «cammino verso l’armonia» interiore dove la parola corrisponde all’azione e questa all’intenzione del cuore. Ne consegue che non ci si può fermare alle apparenze perché l’agire umano non è mai lineare e drittocome due binari paralleli. Esso per natura è contraddittorio; è importante che lungo il processo di realizzazione l’individuo si riprenda e raddrizzi il tiro rimodulando il proprio originario atteggiamento. In ciò concorrono diversi fattori: il cuore, l’esperienza, i sentimenti, i limiti, la superficialità, la stanchezza, la paura, l’ansia e l’istinto di opposizione che diventa contestazione.

Pur tra mille sbandamenti, si può perseguire l’obiettivo dell’unità interiore, lavorando perché la parola corrisponda all’azione, questa alla preghiera che a sua volta s’identifica con il pensiero il quale nutre le scelte di coerenza e trasparenza.