Guariento Mario | Domenica trentesima. Luca 18, 9-14
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Domenica trentesima. Luca 18, 9-14

23 Ott Domenica trentesima. Luca 18, 9-14

C’è sempre qualcosa di affascinante e sconcertante in Gesù. L’invocazione del pubblicano della parabola esprime molto bene quale possa essere la nostra invocazione. Dio è amore e perdono. Noi lo possiamo assaporare e ringraziare. Non dimentichiamolo mai: secondo Gesù, è uscito purificato dal tempio solo il pubblicano che si batteva il petto, dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». Quando ci vediamo giudicati dalla Legge, sentiamoci compresi da Dio; quando ci vediamo rifiutati dalla società, sappiamo che Dio ci accoglie; quando nessuno perdona la nostra indegnità, sentiamo il perdono inesauribile di Dio.

Il fariseo pregava: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano”. Egli non ringrazia per un perdono ricreante, ricevuto dall’amore gratuito di Dio, invece rinnega la fraternità e l’uguaglianza volute proprio da Dio e si pone lontano dalla misericordia perché si fa diverso. Ha perso il contatto con la verità di sé. Conoscersi vuol dire prendere contatto con il profondo di noi stessi, essere in ascolto delle emozioni, delle paure, dei bisogni che albergano nel proprio mondo interno. Non è diffusa la consuetudine di intrattenere un rapporto, un’attenzione, uno sguardo verso il complesso mondo della interiorità. Anzi è piuttosto frequente l’attitudine a fuggirne via, come ha fatto il fariseo, perché tale confronto produce turbamento e richiede il coraggio di prendere atto di aspetti di sé oscuri, sconosciuti e non graditi. Momenti di forte malessere, di crisi, di imprevista sofferenza obbligano talvolta a fermarsi e a iniziare un percorso di ricerca interiore. Più spesso si tende ad attribuire al mondo esterno ogni colpa per i propri insuccessi. È una strategia difensiva che tenta in ogni modo di mantenere una buona immagine di sé. Cattivi sono gli altri, che non capiscono, non vengono incontro. Rimanervi disperatamente attaccati impedisce di smascherare modalità di relazione non feconde, irrigidite nella loro ripetitività, che producono solitudine, incapacità di legame.

Questo fariseo è prigioniero di una fortezza che la sua mente ha prodotto, per nascondere agli altri le proprie fragilità e i propri bisogni profondi. Troppo spesso le motivazioni che guidano l’agire di uomini e donne si fondano su sentimenti di invidia, rivalsa, avidità, ostilità, che diventano spinte a conflitti, incomprensioni, violenze nelle relazioni. Non conoscersi genera dolore, a sé, ma anche agli altri. Le emozioni profonde, figlie di solitudini, abbandoni, delusioni, abusi, che non siano state intercettate da un pensiero capace di trasformarle, conservano una forza rivendicativa cieca, che tende ad usare gli altri al fine di trovare una precaria tregua alle angosce e contiene forti potenzialità di derive distruttive. La conoscenza di sé nasce da un desiderio. Desiderio sufficientemente forte da opporsi alla paura delle proprie dimensioni sconosciute presenti in noi.

Il buon rapporto con il proprio mondo interiore è lo strumento principe di un buon rapporto con gli altri e con Dio, di avvicinarci all’altro senza sopraffarlo, senza usarlo, senza travolgerlo con sfoghi e richieste cui non può rispondere. La conoscenza di sé ci permette di intuire che il nostro dolore è contiguo ed affine al dolore, seppur diverso nelle forme, che colpisce l’altro. Conoscere noi stessi, paradossalmente, diminuisce il nostro isolamento, ci rende parte della grande comunità degli esseri umani, ci dona la gioia di accettare la nostra meravigliosa e originale diversità.