27 Giu Festa di s. Pietro e Paolo. Matteo 16,13-19.
Gesù, giunto nella regione di Cesarea di Filippo, domandò ai suoi discepoli: “Ma voi, chi dite che io sia?”. Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Questa domanda di Gesù non è rivolta soltanto ai suoi primi seguaci. È la questione fondamentale a cui dobbiamo rispondere sempre, noi che ci confessiamo cristiani. La domanda di Gesù non ci chiede semplicemente la nostra opinione. Ci interpella, soprattutto, sul nostro atteggiamento verso di lui. E questo non si riflette solo nelle nostre parole, ma soprattutto nel nostro modo concreto di seguirlo. Come ha scritto un teologo: “La breve proposizione: Io credo che Gesù è il Figlio di Dio, assume un significato completamente diverso se pronunciata da Francesco d’Assisi o da uno degli attuali banchieri. Il Dio di questi uomini non è lo stesso Dio invocato da ciascuno per orientare la propria condotta”. Le parole di Gesù richiedono un’opzione adulta e coerente. O Gesù è per noi un personaggio come molti altri della storia, oppure è la Persona decisiva che ci fornisce la comprensione ultima dell’esistenza, da’ l’orientamento decisivo alla nostra vita e ci offre la speranza definitiva. La domanda “Chi dite che io sia?” acquista dunque un contenuto nuovo. Non è più una questione su Gesù, ma su noi stessi. Chi sono io? In chi credo? In base a cosa oriento la mia esistenza? Tutti dobbiamo ricordare che la fede non si identifica con le formule che pronunciamo. Quasi senza rendercene conto lo riduciamo e sfiguriamo, perfino quando tentiamo di esaltarlo. Noi cristiani non abbiamo potuto imbalsamarlo con la nostra mediocrità. Non permette che lo camuffiamo. Non si lascia etichettare né ridurre ad alcuni riti, formule o costumi. Gesù sconcerta sempre chi gli si accosta con atteggiamento aperto e sincero. Percepiamo in lui una donazione di sé agli uomini che smaschera il nostro egoismo. Una tenerezza che mette a nudo la nostra meschinità. Una libertà che rompe le nostre mille schiavitù e servitù. E, soprattutto, intuiamo in lui un mistero di apertura, vicinanza e prossimità a Dio che ci attrae e ci invita ad aprire la nostra esistenza al Padre. Solo quando vivremo “sedotti” da lui e quando la forza rigeneratrice della sua persona avrà operato in noi, potremo trasmettere anche oggi il suo spirito e la sua visione di vita. Altrimenti proclameremo con le labbra dottrine sublimi, ma continueremo a vivere con una fede mediocre e poco convincente. Ibn Arabf ha scritto che “chi è stato preso da quella malattia che si chiama Gesù, non può più guarire”. Il cristiano oggi parla molto, ha molte conoscenze sulla realtà, ma dove e quando ascolta Dio? Perché sia umana, alla nostra vita manca una dimensione essenziale: l’interiorità. Ci si obbliga a vivere con rapidità, senza fermarci su niente e su nessuno, e la felicità non ha il tempo di penetrare fino al nostro cuore. Il Cardinale C. M. Martini confessava: “Nelle grandi scelte della vita, non scelgo in quanto sono matematicamente certo e profeta sul mio avvenire, bensì perché credo di essere nelle mani di Dio e posso giocarmi con gusto e tranquillità. Giocarsi implica un atto di completo abbandono, non sempre facile. Però senza tale abbandono, rifuggiremo sempre da ogni decisione seria”. E Georg Ivan, un monaco maronita libanese, scriveva questi bellissimi versi: “Ti ho visto sulla riva di fronte: come fare per venire fino a Te? I venti hanno strappato le mie vele, le onde hanno consumato i remi del mio naviglio. Come gettare i ponti? Su quali pilastri costruirli? Ti ho udito, ecco la Tua voce, è nel fruscio dell’acqua. E io, prigioniero della riva dove sono, aspiro a venire a Te. Potrei farlo attraversando l’acqua, ma ad ogni passo rischio di annegare. Tendi le tue braccia verso di me…”.