14 Nov Domenica trentatreesima. Marco 13, 24-32
L’evangelista Marco, prima di introdurre il momento centrale della rivelazione di Gesù, quale è appunto la passione e la croce, affronta la prospettiva della venutagloriosa del Figlio dell’Uomo, quasi a dire che non bisogna mai dimenticare il mistero di salvezza che scaturisce dalla croce, la gloria nascosta del Crocifisso. Gesù va incontro alla sua morte, seguito dai discepoli impauriti ai quali partecipa la sua lotta interiore e il suo abbandono nel Padre. Ha affrontato il male in tutte le sue forme. Ha sentito fin nel profondo tutto ciò che distrugge l’uomo nelle sue forze vive. Nella morte ormai vicina, egli sperimenta i limiti umani che ha voluto accettare, sente la vita sfuggirgli e il suo mondo vacillare inesorabilmente. Con una singolare lucidità, vive insiemel’intimità con Dio suo Padre e l’impegno nel nostro mondo peccatore. Proietta sulla propria vita la luce che la risurrezione dà alla sua morte; e sulla nostra storia quotidiana concentra la luce della fine, della sua venuta definitiva. Nella sua morte prossima, Gesù esperimenta in anticipo la caducità delle cose umane, la relatività degli assoluti che l’uomo si costruisce.
La venuta del Figlio dell’uomo segna per la storia un cambiamento di logica: si fa compiuta e decisiva nel passo terminale del tempo la logica della rivelazione e della redenzione, la logica della carità. Non era facile per i cristiani del primo secolo dopo Cristo, immersi quotidianamente in persecuzioni, emarginazioni e violenze, continuare a rimanere fedeli a Gesù. Ecco allora il grido dell’orante: fino a quando Signore? Vieni, Signore Gesù! Marco ha voluto offrire ai suoi lettori la visione della «fine». Voleva infondere in loro luce e speranza. Ha raccolto detti autentici di Gesù, ricorrendo anche a scritti di carattere apocalittico, ricordando loro il segreto ultimo che racchiude la vita: alla fine, Gesù, l’«uomo nuovo», dirà l’ultima parola: Venite benedetti dal Padre mio! L’amore del Padre vi attende per immergervi nella sua gloria.
«Il cristiano è colui che attende il Cristo» ha scritto il cardinale Newman.
Certo, nei tempi del «tutto e subito», dell’efficacia e della produttività, in cui tutti siamo segnati da attivismo, parlare di «attesa» significa parlare di passività e inerzia, di evasione e deresponsabilizzazione. In realtà il discepolo, che non si lascia definire semplicemente da ciò che fa, ma dalla relazione con il Cristo, sa che il Cristo che egli ama e in cui pone la fiducia è il Cristo che è venuto, che viene nell’oggi e che verrà nella gloria. Davanti a sé il credente non ha dunque il vuoto, ma una speranza certa, un futuro orientato dalla promessa del Signore: « Sì, verrò presto» (Apocalisse 22,20).
Per vivere, l’essere umano ha bisogno di una speranza. Una speranza che non sia «un involucro per la rassegnazione», una speranza che non si deve neanche confondere con un’attesa passiva, che spesso è solo «una forma camuffata di disperazione e di impotenza». Bisogna cercare di chiedersi, cosa vuol dire oggi per il credente fidarsi concretamente di una Parola che non chiude mai, ma apre sempre nuovi scenari, nuovi orizzonti? Consegnarsi esistenzialmente ad una Parola umile che non finisce mai di sperare nell’uomo. Il coraggio di sperare si fonda sul dono incommensurabile di un Dio che continua ad aver fiducia nell’uomo, che non dispera mai di nessuno. Nel suo cuore l’uomo ha bisogno di una speranza che si mantenga viva, anche se si vedono fallire e addirittura completamente distruggere altre piccole speranze.
Noi cristiani troviamo questa speranza in Gesù Cristo e nelle sue parole, che «non passeranno». Non speriamo in qualcosa di illusorio. La nostra speranza si fonda sul fatto immutabile della risurrezione di Gesù. Basandoci sul Cristo risorto avremo il coraggio di vedere la vita presente in «stato di gestazione», come germe di una vita che fiorirà, che raggiungerà la sua pienezza finale in Dio.