Guariento Mario | Domenica Undicesima. Marco 4, 26-34
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Domenica Undicesima. Marco 4, 26-34

17 Giu Domenica Undicesima. Marco 4, 26-34

La prima parabola intende essere una illustrazione della presenza di Dio che accompagna l’umanità nell’attesa del regno che viene; la seconda invece descrive lo sviluppo della nuova comunità umana, secondo il progetto di Dio sul mondo. Gesù si rivolge alla folla, parla a tutti con le immagini vive e vitali desunte dalla vita agricola, poi ognuno deve rileggerle attraverso la propria esperienza che può essere religiosa o culturale. L’uomo getta il seme sulla terra, il «luogo» dell’umanità, la «casa comune». Il seme dal canto suo mette in moto un processo di sviluppo, ma in modo indipendente dall’attività dell’uomo che lo ha gettato. Egli pertanto è presente, ma è ininfluente e anche passivo: di fronte al processo di crescita del seme che si sviluppa secondo un ordine intrinseco, l’uomo può solo attendere e l’attesa diventa l’attività più intensa perché mette in moto un altro processo interiore che non è visibile e spesso è silenzioso. Chiunque sia in stato di attesa di qualcuno o di qualcosa attiva la speranza. Durante il tempo dell’attesa la caratteristica dell’uomo è l’ignoranza: sa che sta avvenendo un processo di vita, ma non sa come ciò accade; vorrebbe gestirlo, ma deve solo subirlo; può essere presente, ma non può intervenire: sia che stia sveglio, sia che dorma, il seme procede da solo, cresce e si realizza in forza della sua natura e della terra che lo ha accolto. La terra, infatti, vive il processo di crescita e mette in atto le condizioni perché esso si svolga pienamente, non trattiene il seme, ma lo accompagna, lo sostiene e lo lascia andare: lo accoglie per lasciarlo libero, non per imprigionarlo. È la dinamica della crescita verso la maturità: accogliere creando le condizioni della libertà e spingendo verso la libertà nel cuore dalla quale soltanto può svilupparsi la coscienza della responsabilità. Osserviamo la nostra vita: Dio ci sembra assente perché agisce e non si presenta secondo i nostri schemi e le nostre categorie, mentre in realtà non è mai andato via, perché resta lì ad occhi chiusi ad aspettare che la terra della nostra vita spinga il seme e questi cresca e germogli fino a portare frutti di maturazione e di relazioni. Abituati a dare valore quasi esclusivamente all’efficienza e al rendimento, abbiamo dimenticato che il vangelo parla di fecondità, non di sforzo, poiché Gesù ritiene che la legge fondamentale della crescita umana non sia il lavoro, ma l’accoglienza della vita che riceviamo da Dio.
La società attuale ci spinge con tale forza al lavoro, all’attività e al rendimento, che ormai non percepiamo più fino a che punto ci impoveriamo quando tutto si riduce al lavoro e all’efficienza.
Di fatto, la «logica dell’efficienza» sta portando l’uomo contemporaneo a un’esistenza tesa e opprimente, a un deterioramento crescente delle sue relazioni con il mondo e le persone, a uno svuotamento interiore in cui Dio scompare poco a poco dall’orizzonte della persona.
La vita è dono di Dio che dobbiamo accogliere e assaporare con cuore grato. Per essere umana, la persona ha bisogno di imparare a stare nella vita non solo partendo da un atteggiamento produttivo, ma anche contemplativo. La vita acquista una dimensione nuova e più profonda quando riusciamo a vivere l’esperienza dell’amore gratuito, creativo e dinamizzante di Dio.
Abbiamo bisogno di imparare a vivere più attenti a tutto quello che c’è di dono nell’esistenza; a far nascere nel nostro intimo la gratitudine e la lode; a liberarci dall’insopportabile «logica dell’efficienza» e ad aprire nella nostra vita spazi per ciò che è gratuito.
Senza dubbio è importante l’opera della semina realizzata dal contadino, ma nel seme si trova qualcosa che lui non vi ha messo: una forza vitale che non è dovuta al suo sforzo.
Sperimentare la vita come dono è probabilmente una delle cose che può far vivere noi, uomini e donne di oggi, in modo nuovo, più attenti non solo a quello che otteniamo col nostro lavoro, ma anche a quanto riceviamo continuamente in modo gratuito.
La nostra maggiore disgrazia è quella di vivere del nostro sforzo, senza lasciarci beneficare e benedire da Dio, e senza assaporare ciò che ci viene continuamente donato. Attraversare la vita senza lasciarci sorprendere dalla novità di ogni giorno. Ci dimentichiamo che «tutto è grazia», poiché tutto, assolutamente tutto, è sostenuto e penetrato dal mistero di questo Dio, che è grazia, perdono e accoglienza per tutte le sue creature. Questo è quello che ci rivela Gesù. Dio continua a seminare nelle coscienze inquietudine, speranza e desideri di una vita più dignitosa.                                 Lo fa soprattutto con i testimoni che vivono la loro fede in Dio in modo attraente e addirittura invidiabile. Nel vangelo si trova una chiamata rivolta a tutti, e che consiste nel seminare piccoli semi di una nuova umanità. Gesù non parla di cose grandi. Il regno di Dio è qualcosa di molto umile e modesto alle sue origini. Qualcosa che, come il seme più piccolo, può passare inosservato, ma che tuttavia è chiamato a crescere e fruttificare in modo insospettabile.
Forse abbiamo bisogno di imparare nuovamente a valorizzare le piccole cose e i piccoli gesti. Non ci sentiamo chiamati a essere eroi né martiri ogni giorno, ma siamo tutti invitati a vivere mettendo un po’ di dignità in ogni angolo del nostro piccolo mondo. Un gesto amichevole fatto a chi conduce una vita disorientata, un sorriso accogliente fatto a chi è solo, un segno di vicinanza fatto a chi comincia a disperare, un raggio di piccola felicità in un cuore stanco… non sono grandi cose. Sono piccoli semi del regno di Dio che tutti possiamo seminare in una società complicata e triste che ha dimenticato l’incanto delle cose semplici e buone.