15 Apr Terza domenica. Testimoni del Risorto. Luca 24,35-48.
Il Signore deve fare un’opera di persuasione dolce e suadente, invitando i discepoli con dolcezza a toccarlo per vedere e verificare la sua presenza in mezzo a loro. Non riuscendo a vincere la loro paralisi, li invita a cena, portando quello che hanno. Quando si mangia insieme, anche le paure più profonde s’incrinano: portano pesce fresco. L’evangelista rileva che Gesù mangia davanti» a loro e non con» loro. Mangiava «con loro» durante la sua vita terrena, ora da risorto mangia «davanti a loro». La differenza non è da poco e non è una questione banale. Con questo comportamento, l’evangelista ci costringe a prendere atto che il Gesù di «dopo» è lo stesso di «prima», ma completamente «diverso»: non è più l’uomo che cammina per le strade, egli ora è il Dio Invisibile, ma Presente, il Dio che vive una dimensione di vita diversa che non appartiene più all’esperienza delle fisicità, ma che si staglia sul crinale della divinità per fare dell’umano un «luogo» di esperienza divina.
La prima cosa perché nasca in noi la fede in Gesù risorto è la possibilità di cogliere, anche oggi, la sua presenza tra noi: far circolare nelle nostre comunità la pace, la gioia e la sicurezza che dà il saperlo vivo, e sapere che lui ci accompagna da vicino in questi tempi per nulla facili per la fede. Il racconto di Luca è molto realistico. La presenza di Gesù non trasforma magicamente i discepoli. Alcuni si spaventano e «credono di vedere un fantasma». Nel cuore di altri «sorgono dubbi». Ci sono alcuni che «per la gioia non credono ancora». Altri continuano a essere «pieni di stupore». La fede nel Cristo risorto non nasce in noi in modo automatico ma in forma fragile e umile. Gesù si ferma, mangia tra loro e si dedica ad «aprire loro la mente» alla comprensione di quello che è avvenuto. Vuole che diventino «testimoni», che possano parlare per esperienza personale e fargli sempre più spazio in ognuno di noi e nelle nostre comunità.
I racconti evangelici lo ripetono frequentemente. Incontrarsi con il Risorto è un’esperienza che non può essere taciuta. Chi ha sperimentato Gesù pieno di vita sente la necessità di raccontarlo agli altri. Trasmette quello che vive. I discepoli di Emmaus «narravano come avevano riconosciuto Gesù nello spezzare il pane». Maria di Magdala smise di abbracciare Gesù, andò dove si trovavano gli altri discepoli e disse loro: «Ho visto il Signore!». La forza decisiva posseduta dal cristianesimo per proclamare la Buona Notizia contenuta in Gesù sono i testimoni. Quei credenti che possono dire come Paolo: «Non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Galati, 2,20). In Gesù vive «qualcosa» che è decisivo nella vita del testimone. Qualcosa di inconfondibile che non trova altrove. La sua unione con Gesù risorto non è un’illusione: è qualcosa di reale che poco a poco trasforma il suo modo di essere, è un’esperienza concreta che motiva e stimola la sua vita. Il testimone offre la propria esperienza, non la propria sapienza. Irradia e trasmette vita, non dottrina. Il mondo di oggi ha bisogno di più vita, speranza, senso e amore. Servono testimoni credenti che possano insegnarci a vivere in una maniera diversa perché essi stessi stanno imparando a vivere da Gesù. È significativa l’osservazione di Luca, quando ci segnala che i discepoli «per la gioia non credevano ancora». L’orizzonte aperto da Cristo risorto pare loro troppo grande per potervi credere. Crederanno solo quando accetteranno che il mistero ultimo della vita è qualcosa di buono, grande e gioioso. Paolo VI, nella sua esortazione Gaudete in Domino, invitava a imparare a gustare le molteplici gioie che il Creatore pone sul nostro cammino: la vita, l’amore, la natura, il silenzio, il dovere compiuto, il servizio agli altri. Può essere la via migliore per «risuscitare» la nostra fede. Il papa arrivava a chiedere che «le comunità cristiane diventino luoghi di ottimismo, dove tutti i componenti s’impegnano risolutamente a discernere l’aspetto positivo delle persone edegli avvenimenti». Secondo i racconti evangelici, il Risorto si presenta ai suoi discepoli con le piaghe del Crocifisso. Non si tratta di un dettaglio banale, ma di un’osservazione di importante contenuto teologico. Le prime tradizioni cristiane insistono senza eccezioni su di un dato che, in generale, non siamo soliti valorizzare oggi nella sua giusta misura: Dio non ha risuscitato una persona qualunque; ha risuscitato un crocifisso. Detto più concretamente, ha risuscitato qualcuno che ha annunciato un Padre che ama i poveri e perdona i peccatori; qualcuno che si è fatto solidale con tutte le vittime; qualcuno che, incontrando egli stesso la persecuzione e il rifiuto, ha mantenuto fino alla fine la sua totale fiducia in Dio.
La risurrezione di Gesù è, dunque, la risurrezione di una vittima. Dove noi mettiamo morte e distruzione, Dio mette vita e liberazione.