Guariento Mario | Domenica terza di Avvento. Giovanni 1, 6-8.19-28
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Domenica terza di Avvento. Giovanni 1, 6-8.19-28

18 Dic Domenica terza di Avvento. Giovanni 1, 6-8.19-28

Chi sei tu?”

La domanda posta dalla commissione d’inchiesta a Giovanni “Chi sei tu?”, è la domanda che attraversa la storia di ciascuno di noi, perché ci obbliga all’individuazione della nostra identità.

In altre parole: io devo sapere chi sono.

Non basta avere opinioni, o formule precostituite, bisogna sapere chi si è e chi non si è, bisogna cioè avere un contatto vero e coerente con se stessi, se vogliamo vivere la nostra vita nell’autenticità e nella verità. La commissione d’inchiesta viene dal tempio, inviata dai farisèi, cioè dai custodi delle tradizioni, del culto, della regola: sono gli specialisti del sacro.            

Noi siamo specialisti della vita religiosa, perché poniamo Dio nel mezzo dei nostri discorsi, dei nostri ragionamenti e delle nostre aspirazioni. C’è il rischio d’identificarci con Lui e di contrabbandare la nostra volontà con la sua e quindi di chiuderci alle «gioiose notizie» che ogni giorno ci invia attraverso gli avvenimenti che viviamo, anche quelli che a noi sembrano banali o insignificanti.      

La domanda Chi sei tu? è personale e acquista un senso nuovo e dirompente: «Perché ho fatto questa scelta di vita, questo lavoro, questi impegni? Qual è la mia identità personale all’interno degli ambienti di vita e nelle relazioni che vivo? Qual è la ragione, la motivazione del mio essere uomo, donna, madre, figlia, marito, figlio? 

Giovanni sgombra subito il terreno, distruggendo le eventuali illusioni che i commissari avrebbero potuto farsi di lui e li incalza: «Io non sono il Cristo», non assumendosi onori e compiti che non gli appartengono.

A volte, può succedere che le persone che vengono a contatto con noi, tendano a considerarci migliori degli altri. Non dobbiamo illudere con le apparenze: la nostra consistenza è semplicemente nell’essere noi stessi, sempre, ovunque con chiunque.

Anche se questo comporta incomprensione, giudizi, etichettature, esclusione.

Essere voce! Forse è qui il mistero della vocazione cristiana.

La voce è consistente finché contiene e trasmette il messaggio della Parola e, se non ha contenuto, è solo un suono vuoto e vacuo. La voce mette in relazione chi parla e chi ascolta. È un soffio, anche quando grida, perché dice la fragilità di chi la usa. Nel mistero della nostra esistenza, siamo chiamati a essere questa voce a livelli diversi.                                                                                                     

«Io, voce che grida nel deserto». La Bibbia chiama questo stato «deserto» non-vita. Resta solo lo spazio per una voce che grida. E’ necessario cogliere la «voce» il cui grido nel caos diventa sempre più flebile, sempre più debole. Alla scuola di Giovanni il testimone, s’impara ad «ascoltare il silenzio» perché Dio sa parlare solo le parole del cuore e il cuore parla senza parole. E’ voce che grida nel deserto dell’orgoglio e dell’autosufficienza per intercedere la compassione e la misericordia di Dio perché tutti gli uomini e le donne siano salvi nel nome del Signore Gesù. È voce che grida nel deserto della desolazione, come Abramo che lotta con Dio nel silenzio della notte per pretendere la salvezza, in nome di un pugno di giusti. È voce corale di lode e di gioia che raccoglie tutte le voci gioiose, sparse per il mondo, per stare davanti a Lui e perdere tempo con Lui, secondo il costume degli innamorati che hanno tempo soltanto per il tempo dell’amore. E anch’io sono voce, attento al richiamo dell’amore, per rispondergli subito e andargli incontro, nel convito d’amore: “Una voce, il mio diletto! Eccolo, viene…” (Ct 2,8).

È in mezzo a noi, non fuori di noi, non accanto, non nelle vicinanze, non in un angolo: Egli sta piantato al centro di noi stessi, è il centro del nostro esistere e del nostro vivere. Parafrasando gli angeli della risurrezione, potremmo dire: non cercate fuori di voi, colui che vive dentro di voi (Lc 24,5). Eppure, spesso lo cerchiamo oltre e al di là della nostra vita, illudendoci di trovarlo in chiesa, nella liturgia, nei riti, nella preghiera meccanica, senza sapere o facendo finta di sapere che questi sono luoghi della Presenza per se stessi. Possono esserlo, ma a condizione che ciascuno prima abbia attraversato il pozzo profondo del proprio essere, là dove soltanto la solitudine dell’anima può mettere in contatto con la Presenza nascosta di colui che vive in mezzo all’identità di ognuno e ne svela il volto e la bellezza.

Se Lui è in mezzo a noi, bisogna riconoscerlo! Eppure, «voi non lo conoscete!».

Com’è tragica questa affermazione. È estraneo pur restando «in mezzo», uno sconosciuto, pur essendo presente! Se non siamo in grado di conoscerlo, significa che c’è un impedimento alla vista e si rende necessario comprare da Lui «collirio per ungerti gli occhi e ricuperare la vista» (Ap 3,18). Per recuperare la vista della conoscenza, bisogna interrogare il cuore, perché solo il cuore sa vedere e scrutare i moti d’amore, come avviene ai discepoli di Emmaus: «Allora si aprirono i loro occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista. Ed essi si dissero l’un l’altro: Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?» (Lc 24, 31-32).                                                                                             

La conoscenza è data dalla vista, cioè dalla sperimentazione dell’amore che si traduce in fraternità condivisa e partecipata, vissuta con gesti, atteggiamenti e parole di tenerezza che diventano accoglienza dell’altro/a com’è, senza pretendere nulla in cambio.

Conoscere è amare! Amare vuol dire proiettarsi completamente nell’altro, considerato come la parte migliore di me, perché esprime per me il volto autentico di Dio che mi ama come sono, nella mia fragilità e nella mia pochezza. La via della conoscenza sperimentale di Dio avviene attraverso la Parola che svela il pensiero e il cuore di Dio, nel momento in cui lui in persona parla al cuore, svelando i suoi sentimenti, le sue attese, i suoi progetti e la profondità del nostro cuore. Impegnarci nella conoscenza significa ancora e più profondamente avere stima e cura di se stessi per essere dono per coloro con cui condividiamo l’Uno che sta in mezzo a noi. Ancora, significa impegnarci nell’essere voce che grida l’amore incontenibile che sta nel cuore: dire con parole e gesti che l’amore vissuto è un amore di cuore, cioè reale e appassionato che viviamo come sacramento visibile, cioè sperimentabile dell’amore di Dio che si fa carne per essere sperimentato e toccato.

La voce e la nostra vita, allora, diventano parola incarnata che testimonia davanti al mondo che il Signore ci abita e noi ci lasciamo abitare dalle sue presenze che sono il volto, il cuore e i sentimenti dei miei fratelli e delle mie sorelle, gli avvenimenti del mondo, i segni dei tempi.