16 Dic RIFLESSIONE PER LA 3^ DI AVVENTO
Il brano sofoniano della 1′ lettura si conclude con un invito pieno di dolce speranza: «Gioisci, esulta, rallegrati con tutto il cuore».
E la ragione di tale coraggioso invito sta nella convinta e ostinata persuasione che il Signore è presente: «Re di Israele è il Signore in mezzo a te, tu non vedrai più la sventura».
Tutto prima o poi può deluderci, ma non Dio. Egli è in mezzo a noi come garanzia di sacra speranza. Egli ci ripete: «Non temere, Sion, non lasciarti cadere le braccia».
Dio ha la forza, la capacità di salvare: «Il Signore tuo Dio in mezzo a te è un Salvatore potente». Dunque il suo invito alla gioia non è una vana consolazione, non è una parola vuota. Quante volte gli uomini ci dicono di aver fiducia, di sperare, ma non ce ne danno la capacità. Dio è Salvatore potente, ci dà la forza di sperare.
Come può Dio rinnovarci e ricreare in noi la sorgente della speranza e della gioia? Risponde il profeta: «Dio ti rinnoverà con il suo amore».
Se Dio ci ama, allora c’è davvero motivo di far festa, di sperare, di gioire. Qualunque sia la qualità della nostra vita, se Dio ci chiama e sta dunque con noi, dalla nostra parte, allora c’è motivo di aver fiducia che la nostra vita non sarà semplicemente una parabola discendente verso il punto zero.
A ciascuno di noi, mediante il profeta, Dio dice che non andiamo verso la morte e il disfacimento, ma verso la vita. E lui è capace di darci la vita piena, anche quando a noi sembra che non ci sia più nulla da fare, che ogni porta si chiuda e ogni strada sia sbarrata.
Troppo facilmente noi arriviamo al punto di rinunciare a gioire, a sperare, a lottare, ma Dio non si stanca, non viene mai meno, non cessa di desiderare il nostro vero bene. Dio non è mai rinunciatario, come siamo noi con eccessiva faciloneria. La vita quotidiana offre numerosi motivi di delusione, di stanchezza, di tristezza. Chi può salvarci dall’emarginazione, dalla solitudine, dalla tristezza? È ancora possibile ritrovare le fresche e genuine sorgenti della speranza e della gioia? Questi interrogativi pongono la questione del senso della vita e perciò valgono per ogni uomo che pensa.
Che cosa dobbiamo fare?
È la domanda che la gente faceva a Giovarmi Battista e che siamo invitati a farci pure noi. Gli uditori del Battista avevano compreso che non potevano limitarsi ad ascoltare, nemmeno bastava acconsentire, ma bisognava tradurre in pratica il messaggio ascoltato e accolto.
L’ascolto vero spinge a una prassi nuova, porta a cambiare vita, altrimenti la fede si trasforma in ritualismo inerte e inconcludente. La risposta di Giovanni Battista è chiara: non chiede gesti di culto, offerte o sacrifici, bensì un rinnovamento.
Potremmo riassumere il suo messaggio così: darsi al prossimo bisognoso. Egli chiede di dare al prossimo: la tunica a chi non l’ha e il cibo a chi ne è privo. Vestito e cibo sono gli elementari e fondamentali bisogni umani. La conversione, dunque, tende ad abolire la povertà e la fame mediante la fraterna condivisione. E’ conversione all’amore. Il Battista chiede cioè di far giustizia nella società, di garantire a tutti la possibilità di vivere in modo umano.
In secondo luogo, il Battista chiede di «non esigere nulla di più di quanto vi è stato fissato». Così si esprime rivolgendosi agli esattori delle tasse. Vuole in tal modo condannare ogni abuso di potere. In terzo luogo, ai soldati dice: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno, contentatevi delle vostre paghe». Il Battista esige la rinuncia alla violenza oppressiva e al desiderio di possedere e di avere sempre di più.
Queste tre regole sono il fondamento della società nuova cui mira la predica di Giovanni: condivisione, non violenza, giustizia.
Questi avvertimenti del Battista vengono così illustrati da s. Massimo: «A tutte le professioni la Sacra Scrittura prescrive una morale: l’obbligo di fare il bene s’impone a tutti, senza distinzione di dignità, di età. Per ogni cristiano il primo servizio dev’essere quello dell’onestà… E di qui comprendiamo che davanti a Dio non è da condannare la funzione dell’esattore, ma l’iniquo esercizio di tale funzione…
Chiunque riceve un pubblico stipendio, se cerca di guadagnar di più, vien condannato dalla sentenza di Giovanni come intrigante e vessatore. E tuttavia questo male si è talmente diffuso che ormai quasi per consuetudine si vendono le leggi, si corrompe il diritto, gli stessi giudici son venali e nessun processo è trattato senza emolumento».
Qualche tempo prima, s. Ambrogio lamentava l’avidità del denaro che vedeva «crescere sempre più negli uomini e particolarmente in quelli che erano al potere, così da rendergli oltremodo laborioso il suo intervento presso di loro, poiché ogni cosa si vendeva per denaro».
Due temi emergono e si intersecano nelle letture di oggi: la solidarietà e la gioia. Bisogna subito riconoscere che l’egoismo costitutivo, innato nella persona, include un attestato alla positività della vita.
Come ama ripetere Lévinas, la vita è prima di tutto godimento, assimilazione dei nutrimenti mondani, felicità; diversamente, non si spiegherebbe che la mancanza sia insoddisfazione, sofferenza, ricerca. Positività e innocenza del godimento, ma insieme; innocenza come espressione del nostro io nella ricerca della sua voglia di vivere. Il problema che dimora nel godimento sta proprio in questa sua ambivalenza di bontà originaria e di orizzonte chiuso, di canto alla vita e di cecità per l’ordine generale della vita. Per i più recenti movimenti i nuovi bisogni e la riscoperta della corporalità, diventano diritto alla felicità e trionfo del privato.
Contro l’etica dell’impegno, contro la spiritualità dell’ascesi, questi movimenti fanno valere le ragioni della vita, in quella sua istintuale evidenza che non ha bisogno di sublimarsi per giustificarsi, che può esibire una naturale e ovvia plausibilità. Ma a queste ragioni s’accompagna il limite; che è l’incapacità di riconoscere che il godimento non è autoregolato e che tende all’eccedenza: il godimento ha in sé il seme della consumazione onnivora, quindi della distruzione. Il godimento porta alla trasgressione (ossia il superamento dei confini); che è prevaricazione, violenza, strumentalizzazione. Ma questo non autorizza a identificare santità e fatica di vivere, a considerarle organiche alla vita dello spirito.
C’è una spiritualità della durezza di vivere e una spiritualità del piacere di vivere: sono due modalità dell’esistere nello Spirito, la cui sostanza è definita, in positivo, dall’adesione al Dio della vita, in negativo, dalla rinuncia a farsi signori dell’altro, delle persone. Due modalità sempre presenti, con variazioni d’accento e di intensità, nella biografia degli individui; ma legate anche all’esistenza collettiva.
Che una collettività possa, nel suo insieme, coltivare come sua caratteristica una spiritualità della gioia di vivere mi sembra una grande svolta epocale nella storia dei modelli e degli stili spirituali. La cosa appare ancora più chiara se, invece delle negazioni naturali, si considerano quelle che sono provocate dal disordine specificamente umano; dall’ingiustizia, dal non-amore o dall’indifferenza.
Queste negazioni rappresentano uno scacco del disegno originario di Dio. La generosità dei beni, di tutti i beni, sia spirituali che materiali, ha bisogno della generosità delle persone per diventare presenza e attuazione effettiva di godimento. La gioia di vivere non può zampillare e scorrere per energia propria: fonte e alveo ne è il dono, la solidarietà, l’amore.
Non c’è dunque una ragione di principio per esorcizzare una spiritualità della gioia in nome delle masse di sofferenza. Spiritualità della gioia non è l’espediente per giustificare il mio godimento davanti alla tua privazione; è, prima di tutto, l’imperativo di colmare la tua privazione condividendo il mio godimento. È un affermare la vocazione di tutti al godimento attraverso la solidarietà, l’amicizia, la carità, la fraternità.
Oggi credo che una rivoluzione culturale per l’Occidente non è aggiungere ricchezza a ricchezza abbandonando i poveri alla loro miseria; è correggere quella ricchezza che rende miseri i poveri e fa dei ricchi i falsi ricchi. Da questo punto di vista, non soltanto c’è un’unica radice di tutti i beni ‑ la gratuità, la solidarietà – ma c’è anche un unico obiettivo perseguibile a livello mondiale: rendere la terra abitabile.
Pane e bellezza, amore e solidarietà, giustizia e fraternità sono due momenti della gioia di vivere: si muore di fame e si muore di vuoto. L’alternativa spirituale non è tra beni di necessità e beni superiori: è tra l’io e l’altro, tra il culto del privato e lo spazio del solidale, lo spazio dell’amore.
Allora preghiamo:
Donami Signore, di spargere a larghe mani la vita, la gioia, il perdono. Solo così la nostra vita sarà eucaristia e Tu vivrai in noi con il tuo Spirito che farà di noi uno spazio aperto dove celebrare il tuo incontro d’amore. AMEN