18 Mar HO FATTO UN SOGNO
Oggi c’è bisogno di leadership che non dirigano l’istituto come fosse un’impresa di lavoro.
Occorre un’autorità che non si accontenti di gestire l’istituzionale, che non si serva delle persone, ma che si ponga a loro servizio.
In ogni sistema sociale, con il passare del tempo, l’idealità che l’ha originato perde vigore.
A soffrirne maggiormente sono quei sistemi sociali — nel nostro caso Congregazioni e Ordini — che hanno risvolti “funzionalisti”. Che in buona parte la Vita Religiosa sia funzionalista lo si desume dal fatto che la mancanza di vocazioni si è cominciata a soffrire sul versante del funzionalismo operativo: mancanza di chi mandi avanti le scuole, gli ospedali, le strutture di accoglienza, in definitiva le opere. Se prevalentemente in queste è stata posta l‘identità, è naturale che l’istituto porti maggiormente l’attenzione a logiche di sopravvivenza di queste prima che a logiche di qualità della vita delle persone; logiche che portano, senza avvedersene, a “servirsi” delle vocazioni piuttosto che “servirle”.
In tale situazione l’istituzione è tendenzialmente portata ad essere maggiormente interessata al fatto che il singolo appartenga all’Istituto, piuttosto che l’Istituto appartenga al singolo. Tendenza propria di ogni sistema sociale funzionale per il quale la persona è “relativa” all’istituto. Nell’istituzione i confratelli/consorelle sono apprezzati per la loro efficienza e la loro capacità di lavoro, parte di una macchina. Importa il prestigio dell’istituzione che non può esimersi dalle richieste della cultura dell’immagine, cioè la potenza, il successo, la forma dei numeri e dei mezzi. Espressioni che vengono a dire che non è possibile pari attenzione all’opera e alla persona essendo le due, per qualche verso, in rapporto inversamente proporzionale: tanto più l’attenzione è riversa sulla ”istituzione” con i suoi paradigmi funzionali, altrettanto diminuisce l’attenzione alla «persona».
Per vivere l’esperienza di fede sottesa alla Vita Religiosa è imprescindibile una vita di fraternità, cioè una vita da fratelli o sorelle. Il percepirsi tali è dato non per un riferimento istituzionale ma solo se si vivono le stesse istanze, la prima delle quali è la comunione intesa come comunicazione della vita, in particolare la vita di fede, quella che ha nella relazione il suo elemento cardine. Cos’è la fede se non una trama di relazioni, un percorso che porta dentro una fraternità? Cristo è venuto perché sviluppiamo relazioni. Allora ci viene chiesto di offrire spaccati umani significativi, con attenzione che nell’impianto organizzativo ci sia un’attenzione forte alla dimensione della relazione e della valorizzazione dell’umano, non dimenticando inoltre che gli autentici cammini di auto trasformazione si svolgono sempre in piccoli gruppi e cioè all’interno di relazioni strettamente personali: è qui che si disattivano a poco a poco tutti i meccanismi che generano ipocrisie.
Potremmo così avere una fede più leggera, meno “pesata” o declinata in chiave istituzionale, ma più comunionale ed esperienziale, in una parola una fede che è “vita” fraterna, non quella alimentata dalla teoria ma dall’incontro con il volto delle persone che ti stanno accanto. In questo modo è possibile rispondere alla forte disaffezione verso l’elemento istituzionale, sentito, a ragione o a torto, tanto invadente da prendere il sopravvento sull’elemento più vivo, relazionale, umano, storico.
In questi ultimi tempi le comunità per una migliore governabilità delle Opere ha dovuto fare alcuni passaggi: da comunità al cuore dell’opera a comunità a fianco dell’opera e infine a comunità fuori dell’opera. Da qui una preoccupazione che si fa domanda: come ridefinire l’esubero dei tanti confratelli o consorelle che per vari motivi si ritrovano “fuori”, cioè privati dell’essere all’interno di quegli spazi entro cui hanno espresso il meglio della loro vita?
La istituzione è in grado di creare situazioni che mettano l’accento sul primato di quelle che danno risposta al desiderio di autenticità, di realizzazione, in fedeltà anche a se stessi cioè alla propria verità e al nome scritto da Dio in ognuno?
Siamo nella società del progetto di vita personalizzato. L’individuo non è più una “particella” ma, in quanto persona-soggetto, è un qualcosa di unico, dalla coscienza inalienabile per cui ogni ridefinizione di dove e come vivere non può prescindere dal promuovere efficacemente la crescita del suo benessere fisico, psichico e spirituale.
Sono dunque necessarie soluzioni che non facciano pensare alla comunità come struttura o contenitore perché oggi, più di ieri, la comunità è concepibile solo a partire dall’essere centrata sulle relazioni a dimensione familiare, e dunque di vita di fraternità piuttosto che di vita in comune, che permetta a ciascuno i propri ritmi, in cui i limiti siano accolti con umorismo e misericordia, punto di convergenza di una istanza spirituale e umana senza che una sia in contrapposizione con l’altra. Tutto ciò è possibile dove si trovino persone con cui stabilire un dialogo, intrattenere rapporti positivi, una comunicazione franca, un riconoscimento.
Un documento del dicastero della Vita Consacrata invita l’autorità alla «presa di coscienza del valore della singola persona, con la sua vocazione e i suoi doni intellettuali, affettivi e spirituali con la sua libertà e capacità relazionali».
Non sembri questo un cedere agli effluvi del postmoderno ma una presa d’atto del fatto che anche «il religioso non può vivere l’attenzione al polo trascendente del Regno e darne testimonianza se la sua vita umana non riesce a trovare la pace interiore e la gioia profonda che corrispondono all’aspirazione naturale del suo essere. Una Vita Religiosa che prescindesse da ciò non sarebbe fedele al mistero evangelico che è quello della salvezza dell’uomo».
Sull’onda lunga del Concilio, negli anni 1970-80, quando l’età media dei religiosi/e era di poco superiore ai cinquant’anni, numerosi furono i fermenti in prospettiva di cambiamento; squarci di futuro che emergevano con la forza della speranza. Le forme espressive di questo risveglio, in un tempo in cui una linea piatta poteva sembrare un segno di continuità, piuttosto che sintomo di inerzia e di non vita, anziché essere viste come sintomatiche di un disagio causato da un ritardo storico sempre più insopportabile, erano percepite invece come una patologia da curare e chiamate contestazioni, quando invece erano “contestualizzazioni” vale a dire voglia di ricollocare la Vita Religiosa nell’ambito della contemporaneità. Adesso le contestazioni di allora hanno lasciato il posto a varie forme di “scisma sommerso”. Si parla di “scisma sommerso” in riferimento alla Chiesa, ma è un fenomeno che riguarda sempre più anche la Vita Religiosa. Si esprime nel fatto che le persone non prendono posizione “contro” di essa ma stanno imparando a vivere “senza” di essa, cercando la vita altrove. Non viene meno la presenza ma è a misura di una “appartenenza con riserva” sempre più povera di passione che porta alla crisi del legame sociale. Gli indici di scarsa appartenenza che hanno una eloquenza propria sono le lettere di fraternità e scritti dell’istituto non letti; lo scarso numero di risposte ai questionari; il disinteresse per le linee programmatiche dei capitoli e quant’altro. A sentirsi “estranei”, sono tutti coloro che avevano riposta la propria identità in ciò che facevano e che oggi (per l’età o per altro) essendo privati di ciò, si sentono anche spogliati dell’identità stessa. Inoltre si sentono estranei anche coloro i quali vedono che ciò che vanno facendo, per il cambio d’epoca, non ha più risposte di senso e infine coloro che scoprono che, nonostante i documenti alti spingano al “sogno” non c’è più posto per i “sognatori” ma soltanto per “manutentori” nelle vesti mutevoli di “ragionieri” o di “notai”.
Da tutto questo deriva il senso di privazione della cittadinanza attiva che porta a passare da attori a spettatori lasciando che tutto succeda. Baudelaire diceva: «ogni uomo porta in sé una dose di oppio naturale, che instancabilmente secerne e rinnova».
Oggi c’è bisogno di leadership che non dirigano l’istituto come fosse necessità di chi, nel servizio dell’autorità, non si accontenti di gestire l’istituzionale; gente che abbia fatto il passaggio da una autorità che preserva se stessa (l’istituzione) servendosi delle persone, ad autorità a servizio delle persone interiormente libere e responsabili della propria vita; e ancora c’è voglia e necessità di chi dovendo pensare al crescente numero di religiosi/e in esubero (in relazione alle attività), sappia dare vita a forme comunitarie in grado di fare spazio ad una adeguata vita individuale e collettiva tali che non rafforzino una immagine svalutata della condizione di fragilità di coloro per i quali sono pensate.
Il primo dei presupposti oggi alla base di una organizzazione comunitaria, è che non sia destabilizzante sul piano dell’identità, esito che passa attraverso l’esproprio della storia delle persone. A tal fine servono scelte che facciano spazio alle “biografie” con opzioni che rispettino il carattere irrepetibilmente individuale di ogni esperienza soggettiva. Se, ad esempio, la conquista di umanità è avvenuta nelle relazioni e grazie alle relazioni, è solo in ambienti di buona relazione; se questa non viene tutelata ne va di mezzo la dignità stessa.
E’ tempo allora di comunità non unicamente impostate su una condizione deficitaria delle persone, che rafforza il senso di estraniamento da sé e dagli altri, ma di comunità-comunione, che nel contempo siano un’esperienza di nuova spiritualità e non meno di nuova umanità. A questo scopo servono fraternità con inediti codici di esperienza e appartenenza, il cui valore sia quello di essere annuncio di un modello di relazioni positive di tipo familiare che comporta una comunicazione schietta, non priva di empatia, cioè con la capacità di rendersi conto di ciò che pensa, sente, vuole, chi mi sta vicino.