11 Mar VIVERE OGGI DA VIVI
Lo “specifico” della persona è la libertà a cui tutti siamo chiamati. Essa risiede, anziché in qualche primato o caratteristica esclusiva, nella responsabilità di rendere credibili la fraternità con un amore che accetta la misura della croce e senza rinviare l’esperienza della resurrezione dal male al confine estremo della vita.
Si apre così la possibilità di vedere, nella fedeltà al proprio radicamento, la vita di Dio nella vita di tutti e nella loro specifica esperienza.
Il presente è l’invito a liberarsi non della specificità di un’esperienza storica, ma della sua assolutizzazione. A liberarsi da quella specie di gratificazione o di felicità ristretta che ad occhi chiusi ci si procura tramite l’appartenenza fondata sull’esclusione degli altri e non sull’amore. La libertà umana chiede di poter vedere il senso e l’origine di tutto; essa in definitiva cerca la felicità e per incontrarla deve appunto poter vedere la vita intera, umana, cosmica e divina, e riconoscersene partecipe. Ma per vedere in questo modo la libertà deve imparare a portare un vuoto, a portare il patimento dello scarto dalla felicità. Altrimenti la frustrazione acceca la libertà e la fede. E’ un compito che investe i singoli come pure le collettività. Possiamo imparare a portare il vuoto solo superando il sentimento del possesso concluso .
Questo apprendimento esige a sua volta di affrontare e sanare la paura, che rimane la forza di separazione e di divisione più grande sussistente nella condizione umana. La paura separa gli uni dagli altri. E separa anche il pensiero dall’azione, l’esistenza dalla maturazione. Per questa ragione studiare, riflettere, comprendere sono attività che non bastano a cambiare vita. La libertà del bene in noi ha bisogno di sanare la paura, di confidare in quell’amore che ci insegna a vedere.
Il superamento della paura grazie al potere dell’essere non significa eliminazione della paura. Non potremmo vivere senza una combinazione bilanciata di coraggio e di paura. La paura anticipa il pericolo e mobilita le risorse per affrontarlo. Il coraggio ci permette di guardare in faccia il pericolo, e di affrontarlo invece di fuggire. Il coraggio di essere si basa sul riconoscimento di un essere che è al di là di qualsiasi mancanza, che non è minacciato dal non essere. Vivere sul piano fenomenico, obbliga a fare i conti con il non essere che minaccia continuamente l’essere di ogni persona.
Ma proprio questa sfida del non essere apre l’accesso a un livello più profondo, il livello a cui occorre accedere per un superamento radicale della paura e dell’ansia, vale a dire per poter vivere con coraggio sul piano della vita quotidiana senza rimanerne intrappolati. È essenziale la ricerca di uno spazio interiore libero dalla paura: siamo liberi solo nella misura in cui riusciamo a installarci in questo spazio, a partire dal quale possiamo affrontare tutte le paure che accompagnano inevitabilmente la nostra vita. Una volta ridimensionata, cioè ricondotta alla sua funzione di segnale, la paura può convivere dialetticamente con il coraggio. Anzi ne abbiamo bisogno: la sua funzione fisiologica è quella di anticipare il pericolo e permetterci di andargli incontro nel modo migliore. Ma in mancanza di questo, tendiamo a reagire in modo automatico alla paura, nelle modalità dell’attacco e della fuga, invece di rispondere in modo calmo e consapevole delle circostanze.
Per l’uomo d’oggi, malato di frastuono, c’è l’urgenza di ritornare al silenzio come auscultazione dell’essere. C’è bisogno di riapprendere il cifrario delle “ parole del silenzio”.
Presenza come silenzio è la prima forma di ricchezza umana, che si affaccia in attitudine di ascolto, di offerta, di dono. Nel nostro tempo, così segnato da rumori assordanti e pubblicità vuota, ci chiede di parlare solo con i fatti. È questo, il linguaggio che l’uomo, sovraccaricato di parole nella info-società, ha bisogno di ascoltare. Sono le più incisive ed efficaci.
Lo spazio interiore dell’uomo è il suo profondo, in cui non solo può rifugiarsi, bensì ritrovare se stesso, trascendendo il suo ambiente e ridando ad esso la su impronta personale.
Ed è proprio in questo spazio che l’uomo si riscopre come una centrale non soltanto capace di elaborare significati, ma di incontrare l’onnisignificante di tutti i significati, la verità.
L’essere umano non è disabitato. È permanentemente inabitato dalla Presenza. Che anzi, egli è autentica presenza umana, proprio nella misura in cui si coglie inabitato da questa Presenza che lo ha preceduto nel suo essere.
L’interiorità è l’uomo nascosto del cuore. Il suo cibo non può essere se non fornito dalla scala dei valori: la verità, la bontà, la bellezza. Frequentare l’interiorità coincide con il percorrere il sentiero dell’interiorizzazione, vicenda sempre aperta e appassionata. La domanda biblica con cui si apre la storia dell’uomo: Adamo, dove sei?, va oggi riletta come incessante invito a ritornare all’uomo interiore.