06 Mag GIOVEDI’ 30.04.2020
Giovanni 6, 44-51
“Questo è il pane disceso dal cielo, perché chi ne mangia non muoia” ma rimanga vivo, «La vita cristiana non è facile, ma è felice», diceva Paolo VI. Il vangelo è esigente per una mentalità umana condizionata da valori illusori; diventa invece liberante quando ci si pone con semplicità alla sequela del Signore Gesù e si crede in lui. Abbiamo così due livelli di vita cristiana: quello di chi fatica a entrarci e quello di chi ci si lascia coinvolgere pienamente. È un mistero di rapporto e comunicazione tra la persona e Dio, un cammino mistico in quanto chiamati a entrare in una relazione d’amore con Cristo». Occorrono però alcune condizioni che sono necessarie per «rimanere in Cristo», vivere in lui la nostra esistenza. Sono cose semplici, come è semplice tutto l’annuncio del vangelo. Ma sono proprio le condizioni attraverso le quali si arriva a quella «misura alta» della vita cristiana ordinaria. Una misura alta dove il vivere umano si innesta in quello del Dio fatto Uomo, rendendoci tutti figli nel Figlio. E facendoci vivere come tali fin da questa esistenza terrena.
Solo nell’amicizia con Cristo si dischiudono realmente le grandi potenzialità della condizione umana. Egli non toglie nulla e dona tutto. E solo quando si è in Cristo la vita diventa libera, bella e grande.
Andare oltre noi stessi è porci su quel piano in cui il nostro vivere è orientato e alimentato dallo Spirito, come la vita di un bimbo è nutrita dalla madre che lo porta nel grembo. Un’immagine che non evoca passività. Ora, proprio l’esigenza cristiana di tendere oltre noi stessi per vivere come figli di Dio richiede l’impegno a incontrarci innanzitutto con il nostro io interiore. È di lì che parte l’avventura di quell’essere in Cristo che ci fa creature nuove, dandoci una capacità di vedere, di ascoltare e di volere, sulla lunghezza d’onda che è quella di Dio.
Rimane insuperata la nota espressione di sant’Agostino: «Non uscire fuori da te, rientra in te stesso… Tendi dunque là donde in te s’accende la luce stessa della ragione».
Oggi il rientrare in noi stessi non è favorito dalla mentalità corrente e tanto meno dalle condizioni di vita ordinaria. Perciò è un’arte a cui ciascuno dovrà abilitarsi, fino a che non diventi spontaneo vivere a un tempo nella propria interiorità e nelle cose esteriori a cui siamo chiamati.
Certo, per educarsi a tenere gli occhi dello spirito aperti sul nostro io interiore, ci vorrà una disciplina che quieti la nostra persona. A questo fine sono da valorizzare quei tempi dello spirito in cui, da soli o aiutati, ci poniamo davanti a Dio: è da lui che viene la grazia stessa di entrare in quello spazio interiore che Caterina da Siena chiamava la «cella segreta». Racconta infatti il suo biografo, Raimondo da Capua, che, quando in famiglia fu tolta a Caterina la stanza dove era solita restare da sola a pregare, ella, per ispirazione dello Spirito Santo, costruì nell’anima sua una cella dove viveva la presenza di Dio.
La nostra cultura, anche a livello religioso, tende a esteriorizzare. Lo stesso desiderio di Dio, percepibile nella voce del silenzio, rimane sopraffatto da un vago bisogno di Dio che, il più delle volte, si appaga in esperienze emotive.
Mi sembra più importante che mai sottolineare che la solitudine è una delle capacità umane in grado di esistere, mantenersi e svilupparsi anche al centro di grandi città, tra la folla fitta e nel contesto di una vita attivissima e produttiva. L’uomo o la donna che possiedono questa solitudine non sono più fatti a pezzi dagli stimoli divergenti del mondo che li circonda, ma sono in grado di percepire e capire quel mondo da un centro interiore in cui regna la quiete.