13 Nov DOMENICA 15.11.20
Matteo 25, 14 – 30
Oggi ascolteremo la parabola dei talenti che appartiene al quinto e ultimo discorso attribuito da Matteo a Gesù per presentarlo come nuovo Mosè, il più grande profeta dell’AT, secondo la tradizione giudaica e cristiana. La Parola è sempre una grande maestra di sapienza. Ci prende per mano e ci porta a crescere secondo visioni che non sono secondo la nostra saggezza. La prima lezione che il vangelo di Matteo ci offre è come imparare a vivere il tempo, come non affogare nel presente come il tutto e perdere ogni orizzonte di attesa, di futuro. Il teologo K. Rahner dice: Un «presente senza avvenire» è un non-senso, una specie di condanna a morte.
Ogni avvenire lo si sogna sotto la forma di un domani gioioso e lo si prepara anche con tutta la forza del proprio lavoro. Il nostro inseguimento dell’avvenire è, in definitiva, la ricerca di una fine che non sia un semplice termine, ma una meta pienamente raggiunta. L’impegno dell’attesa è luminoso perché vive nella luce di chi ha la certezza che la persona che si ama arriva sempre perché chi ama non delude mai la speranza. Il vangelo riporta la parabola dei servi che ricevono i talenti che non sono da identificare con i doni o le doti naturali perché in Mt 25,14 si dice espressamente che «consegnò loro i suoi beni» e al versetto successivo dice, «a ciascuno secondo la sua capacità», presupponendo così le doti naturali di ciascuno. I servi ricevono in consegna beni che non sono i loro, ma sono loro affidati e di cui devono rendere conto: sono i beni del regno di Dio.
La distribuzione avviene tenendo conto delle qualità naturali di ciascuno: i cinque talenti o due oppure uno soltanto sono dati secondo competenza, capacità, intraprendenza, valutazione di rischio, la disponibilità a portare la responsabilità di gestire cinque o due o un solo talento. Se infatti, il padrone li avesse dati a caso, senza alcuna valutazione di competenza e col rischio di perdere il proprio patrimonio, sarebbe stato quanto meno imprudente, mettendosi sullo stesso piano dei suoi dipendenti, e non avrebbe avuto titolo a chiedere conto al suo ritorno. Dio rispetta sempre la condizione naturale di ciascuno. La fede non supplisce le nostre debolezze o incapacità; non basta credere per essere competente in campi in cui non lo siamo: la fede è un criterio di valutazione per essere noi stessi e fare bene quello che dobbiamo fare. Se bastasse credere per avere da Dio un colpo di bacchetta magica, avremmo un «Dio tappabuchi» come efficacemente scrive Dietrich Bonhöffer. «Coloro che pretendono un Dio interventista fanno di lui un meccanismo su misura». E Karl Barth, afferma che l’ateismo moderno e la secolarizzazione smascherano la religione il cui Dio è un «Dio-tappabuchi», invenzione dell’uomo per dare una risposta alle proprie insicurezze. Per impegnarci nella diffusione del Regno, dobbiamo conoscerci e avere stima di noi come Dio ne ha tanta da affidarsi alle nostre mani. Il talento datoci è Dio stesso che si affida alla nostra credibilità per presentarsi al mondo. Non possiamo scavare un buco per terra e nasconderlo nel nome dell’umiltà, né possiamo tenerlo per noi, ma siamo chiamati a testimoniarlo con gioia e impegno. L’umile è colui che non si appropria di talenti che non sono suoi. Egli è sempre se stesso: nel segreto della sua coscienza e nel colloquio con gli altri: non si esalta né si deprezza, ma si accetta e si accoglie come dono prezioso di Dio per sé e per gli altri. È grande la tentazione di vivere evitando sempre i problemi e cercando la tranquillità: non impegnarci in nulla che possa complicarci la vita, difendere il nostro piccolo benessere. Non c’è modo migliore di vivere una vita sterile, piccola e senza orizzonte.
Lo stesso avviene nella vita cristiana. Il nostro rischio più grande non è quello di uscire dagli schemi di sempre e cadere in innovazioni esagerate, ma di congelare la nostra fede e spegnere la freschezza del vangelo. Dobbiamo domandarci cosa stiamo seminando nella società, a chi infondiamo speranza, dove diamo sollievo alla sofferenza.
Sarebbe un errore presentarci davanti a Dio con l’atteggiamento del terzo servo: Ecco ciò che è tuo. Ecco il tuo vangelo, il progetto del tuo regno, il tuo messaggio di amore per questa umanità. L’abbiamo conservato fedelmente. Non è servito a trasformare la nostra vita, né a introdurre il tuo regno nel mondo. Non abbiamo voluto correre rischi. A nulla serve essere fedeli al passato quando questo passato non ha quasi nessuna relazione con gli interrogativi e le sfide del presente.
Nessuno di noi può escludersi dall’abbraccio misericordioso della tenerezza di Dio. Siamo qui davanti a Lui, davanti alla nostra coscienza. Esaminiamo e chiamiamo per nome i talenti che abbiamo ricevuto e chiediamo con fiducia perdono per le volte che ci siamo affidati alla grettezza di seppellire il talento nel «buco nel terreno» preferendo la tranquillità immediata invece del rischio della vita. Anche allora, non dimentichiamo mai che Dio è sempre più grande di ogni nostra grettezza e di ogni nostro peccato: «Accostiamoci dunque con franchezza al trono della grazia perché otteniamo misericordia e troviamo grazia». I tre servi, in un certo senso, sono «rappresentativi» della comunità dove vi sono in concorrenza molte capacità, diverse competenze, diversi gradi di responsabilità e d’intraprendenza. Il verbo e il numero dei servi dicono che non si tratta di un fatto banale, ma una lettura della storia e della vita della Chiesa. I credenti del tempo di Matteo erano fiacchi e «seduti», quasi rassegnati all’inevitabile, ma questa parabola, li scuote, li incita a scegliere, agire, muoversi, prendere l’iniziativa. Qui si seppellisce il concetto di «obbedienza» tradizionale che induceva alla passività come stato previlegiato per controllare chi era sottomesso, rasentando l’eresia nel presentare il superiore come «il rappresentante di Dio» che poteva fare e disfare a suo piacimento. Il Signore, nel tempo della Storia, pare assente, è invisibile in mezzo al suo popolo» e non interviene nelle sue scelte, spetta a tutti e tre i servi impegnarsi a garantire i frutti del regno con un occhio al futuro. Dio rischia se stesso, la sua Parola e la sua attendibilità, ponendosi nelle mani dei suoi amministratori, cui affida un tesoro inestimabile, sperando che siano coscienti di ciò che hanno ricevuto e non lo nascondano sottoterra per paura di perdere la loro tranquillità o miranti solo al tornaconto individuale, finalizzato alla salvezza della propria anima. Una ricchezza che non s’investe è morta.
La paura è spesso strumento di disimpegno: il regno di Dio può attendere, intanto ognuno vive per conto suo, in attesa che succeda qualcosa che non disturbi troppo la tranquillità ignava della vita. Il padrone risponde con due termini poco lusinghieri e drastici: «servo diabolico e pigro/ignavo» che esprimono la malizia intrinseca dell’individuo. Anche se avesse ricevuto dieci o venti talenti, egli probabilmente li avrebbe seppelliti allo stesso modo per la gelosia di non fare arricchire il padrone e per non affaticarsi per gli altri. Egli è ottimo rappresentante di chi non si sporca mai le mani perché «non compito suo». Chi si accontenta dell’esistente, uccide la speranza di un futuro migliore, vanifica se stesso e rende «incredibile» Dio.
Gesù viene a ristabilire le condizioni per una nuova creazione i cui beni affida alla nuova umanità perché ne sia responsabile e corresponsabile. I talenti possono essere le grandi emergenze che travagliano l’umanità (l’acqua, il pane, la salute, l’energia, la libertà, la disumanità in cui vive la maggior parte della popolazione mondiale, ecc.), specialmente oggi in un contesto di globalizzazione economica che stritola i poveri sempre più a vantaggio dei pochi ricchi. I talenti, lo ripetiamo, non sono le doti personali, ma la coscienza che ciascuno di noi ha della propria responsabilità dell’intero mondo e in esso dell’umanità sofferente. Tutto il vangelo è intriso dell’invito di Gesù a non avere paura perché la gioia della Parola donata e accolta non può contenere panico, paura o depressione: tutto si svolge nell’abbandono e nella confidenza .