20 Lug DOMENICA 05.07.20
Matteo 11, 25-30
Il vangelo è la conclusione della sezione narrativa che segue il «discorso sulla missione» e ci presenta la figura di Gesù che realizza la profezia di Zaccarìa, riportata nella prima lettura. Gesù è il Messia molto diverso dagli scribi e dai farisei del suo tempo. Questi caricavano i poveri di pesi opprimenti e adempimenti religiosi che essi non toccavano nemmeno con un dito, mentre Gesù offre «un giogo dolce e un peso leggero» perché egli si fa cireneo di ciascuno annunciando la liberazione dei figli di Dio. La tradizione giudaica paragonava l’osservanza della Toràh a «portare il giogo del regno dei cieli» che l’ebreo Gesù fa suo fino in fondo, caricandolo sulle sue spalle e rinnovandolo con il suo messaggio che alleggerisce le spalle dei poveri e carica quelle di Dio. Il comandamento dell’Amore con cui Gesù libera tutta la legislazione precedente diventa la chiave di lettura non solo del comportamento umano e del rituale religioso, ma anche della identità stessa di Dio: Dio è amore di tenerezza e di misericordia.
Gesù si presenta così in una maniera rivoluzionaria; è un Rabbi che non scoraggia, ma che invita a prendere un giogo che egli stesso si è preoccupato di rendere leggero e facile da portare: il comandamento dell’amore. Non solo, ma Gesù va a cercare addirittura tutti gli esclusi e gli impuri, coloro cioè che la religione ufficiale dichiarava irrecuperabili preventivamente, e li dichiara «Beati», cioè i destinatari privilegiati dell’azione di Dio. Se Gesù non volle essere un rivoluzionario per scelta, certamente il suo messaggio e la sue scelte ne fanno il terribile rivoluzionario che mette a soqquadro le certezze acquisite della religione e del sistema socio-politico. Infatti lo ammazzeranno.
Gesù è mite e povero perché instaura rapporti fecondi in quanto pone gli altri, specialmente quelli che erano dichiarati ufficialmente sterili, incapaci di relazione con Dio, come suoi interlocutori privilegiati. Nessuno è escluso dalla sua avventura, perché tutti, ciascuno a modo suo, sono in grado di amare e di essere amati, forse sbagliando, forse esagerando. Prendere il suo giogo significa andare alla scuola di Gesù che è il povero di spirito, il mite che eredita la terra con la sua morte, l’assetato e affamato di giustizia, colui che piange su Gerusalemme e l’umanità che rifiutano la consolazione di Dio, il poeta/creatore della pace, il puro di cuore perché egli vede Dio.
L’invocazione di Gesù dimostra che egli era intriso di Scrittura e la usava nella sua esperienza personale di preghiera. Le parole di Gesù infatti richiamano da vicino quelle del profeta Isaia che con parole definitive si scaglia contro i sapienti del sec. VIII a.C., accusati di essere incoerenti e di servirsi di Dio per i loro piani nefasti: «Perirà la sapienza dei sapienti e scomparirà l’intelligenza degli intelligenti» (Is 29,14). Gesù non è un sapiente nel senso comune, la sua opera è compiere il volere di salvezza del Padre che egli interpreta come una chiamata universale alla mensa della libertà di tutti coloro che sono esclusi ed emarginati.
Il Sapiente è colui che vive nell’amore e nella fedeltà al disegno di Dio rivelato. In questo contesto il binomio «piccoli/sapienti» in bocca a Gesù diventa straordinariamente innovativo: nessuno è più estraneo alla mensa della Sapienza che finalmente realizza il suo desiderio: “Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato. Abbandonate l’inesperienza e vivrete, andate diritti per la via dell’intelligenza”» (Pr 9,1-6). Anche i poveri e i piccoli possono mangiare il pane e bere il vino del Regno annunciato da Gesù. In questo consiste il capovolgimento della logica del vangelo opposta a quella del mondo.
Oggi questo vangelo è particolarmente adatto per coloro che detengono le leve dell’informazione e quindi gli strumenti della conoscenza con i quali è facile fare credere una cosa per un’altra o indirizzare verso obiettivi preventivamente studiati per manipolare coscienze per fini politici, economici o sociali. Creare e alimentare un clima di paura per avere terreno fertile a far passare leggi disumane contro gruppi di minoranze senza tutela che altrimenti non sarebbero state mai approvate è un atteggiamento di quella sapienza che si fa furba e che attira su di sé la condanna del profeta Isaia e l’esclusione da parte di Gesù che sceglie coloro che sono esclusi, manipolati e manovrati. Gesù è un leader che detiene un’autorità autorevole perché alleggerisce i pesi del popolo e si pone davanti ad esso come modello non di autorità, ma di umiltà e di mitezza. L’autorità nella chiesa entra in crisi quando si pone come comando senza adeguate ragioni e impone comportamenti e modelli che aumentano la pesantezza del fardello, non la riducono. Un’autorità veramente progressista è quella che invita a salire in alto e ad andare avanti, che prende per mano e guida verso il futuro, che sorride sulle debolezze umane e addita una mèta coraggiosa come punto di forza e di identità. Un’autorità che cura sé stessa è frutto maturo del divisore, non imitazione di Cristo, mite e umile di cuore. Se vogliamo imparare ad essere autorevoli, dobbiamo imparare a saper sorridere e l’Eucaristia è la scuola in cui Dio ci sorride con la mitezza del pane e l’umiltà della parola che si fanno nostro cibo e nostra forza.
Dobbiamo imparare ad essere semplici. Diceva la scrittrice francese George Sand: non c’è nulla di più difficile al mondo della semplicità. Si tratta infatti dell’ultimo traguardo dell’esperienza e dell’ultimo sforzo del genio. Essere semplici è frutto di una profonda e rigorosa educazione della mente e dello spirito. È per questo che raggiungere la trasparenza interiore, cogliere la sostanza della cosa, individuare il nodo d’oro che riunisce i frammenti in armonia è veramente l’ultimo traguardo di una lunga ricerca. E forse le cose difficili neppure esistono, se accettiamo l’ammonimento di Seneca: “Non è perché le cose sono difficili che noi non osiamo, è perché non osiamo che esse sono difficili”.