29 Giu DOMENICA 27.06.20
Riflessione su Matteo 10, 37- 42
Domenica XIII
Il tema unico che la Liturgia ci propone oggi è il tema arduo e difficile dell’ospitalità come accoglienza non solo dello straniero, ma principalmente come misura con l’altro in quanto altro, con l’altro che irrompe con la sua diversità nella vita di ogni giorno e impone un confronto, un dialogo, una messa in discussione delle sicurezze acquisite. L’ospitalità ci obbliga a una verifica della nostra identità perché ogni ospite ci svela la parte di straniero che è in ciascuno di noi, aprendoci così alla conoscenza di noi stessi e di Dio che si rivela come l’Altro per eccellenza, il Totalmente Altro, il Dio che non può contenere nemmeno la nostra esperienza di fede. Il Signore mentre ci accoglie ospiti alla sua mensa, ci chiede di accoglierlo come ospite alla mensa della nostra cultura, del nostro pane, del nostro benessere, della nostra società. Probabilmente l’accenno al «prendere la croce» potrebbe essere collocato all’inizio del suo ultimo viaggio a Gerusalemme, quando ormai egli era sicuro che l’opposizione dell’autorità ufficiale lo avrebbe rifiutato e condotto alla morte. Gesù vuole verificare chi è disposto ad accoglierlo fino in fondo. Prendere la croce, che è sinonimo di accogliere Cristo come il senso della nostra vita, comporta rotture anche in quella dimensione della vita che costituisce l’esistenza dei singoli in relazione tra loro.
Parole forti e dure che esigono un amore così limpido e gratuito che anche il padre e la madre, il figlio e la figlia, la moglie e il marito non sono di più o di meno degli ospiti e stranieri con i quali il Signore si è identificato. Non parole di paura, ma esse indicano una dimensione altissima, l’unica nella quale possiamo realizzare veramente noi stessi: amare come Dio stesso ama, cioè amare in modo unico ciascuno non in quanto diverso da me, ma in quanto figlio e immagine di Dio. Amare Dio sopra ogni cosa e affetto significa ritrovare e rinnovare gli affetti oltre il limite umano: se nel padre, nella madre, nel figlio, nella moglie… io vedo il volto di Dio scopro in ogni ospite che siede alla mensa del mio amore la parte migliore di me, e scopro l’altro come carne della mia carne e vita della mia vita. Prendiamo dunque coscienza di essere ospiti del Dio che ci ospita, scoprendo che ogni uomo e donna sono mio fratello e sorella, poiché siamo insieme figli dell’unico Padre. Aprendoci così alla dimensione dell’umanità intera, entriamo nel santuario dell’ospitalità che è l’Eucaristia. Mentre nell’amore di amicizia c’è una corrispondenza di reciprocità, nell’agàpe c’è solo un donare amore per la gioia di amare. Si potrebbe formulare così: «Io amo te non perché tu mi ri-ami, ma perché tu sei così importante per me da meritare tutto il mio amore senza condizione.
Ti amo come sei, senza pretendere di cambiarti, ti amo non per quello che mi dai, ma unicamente per quello che tu sei. Questo l’amore con cui Dio ama ciascuno di noi, questo è l’amore a cui dovremmo educarci se vogliamo vivere l’ospitalità come condizione essenziale della nostra anima e della nostra fede.
Nei secoli passati, l’ospitalità era una caratteristica essenziale di tutto il movimento monastico che aveva dato a questo genere di accoglienza la forma quasi sacramentale, se è vero che l’ospite sedeva in refettorio, accanto all’abate. In tutte le culture di tutte le latitudini, l’ospite è sempre stato considerato sacro perché la sua presenza significava diverse cose: metteva a nudo la capacità di una persona o di un gruppo di mettersi in discussione perché l’ospite infrange il ritmo ordinario di vita; modificava le priorità di tempo e d’interesse perché il tempo trascorso con l’ospite doveva essere sottratto ad altre esigenze e in questo senso l’ospite relativizzava le priorità dell’ospitante; infine l’ospite era un segno della presenza della divinità: accogliere un ospite significava dare accoglienza a Dio.
Oggi l’ospitalità si pratica ancora, ma in modo limitato e quasi del tutto privato e questo fatto sta producendo il mostro di una civiltà incivile incapace di misurarsi con i suoi stessi principi. Oggi l’ospitalità è stata sostituita dal turismo che misura l’ospitalità da quanto può ricavarne. In altre parole, l’ospitalità è in vendita o in affitto. Bisogna scoprire il senso profondo dell’ospitalità che il mondo moderno può svelare perché anche le condizioni di turismo diffuso possono essere occasione di un’autentica esperienza di umanità. Essere ospitali non è istintivo così come Dio stesso non è evidente.
Il Dio «serio» non compete con le capacità e l’intelligenza dell’uomo, ma che chiama ogni uomo ad un’esperienza unica di agàpe senza ritorno.
Dietrich Bonhoeffer, soleva dire che più avanza la luce elettrica, più Dio si ritira nel suo cielo per affermare con un paradosso che la capacità dell’uomo nell’ambito della ricerca e della scienza è sempre e comunque una partecipazione all’attività del Dio creatore, il quale non è geloso della bravura dei suoi figli. In un mondo in cui Dio si ritira sempre più per fare spazio alla scienza umana, segno della sapienza divina, quale posto occupa ancora l’ospitalità che porta in sé il sigillo della gratuità senza interessi?
L’ospitalità presso i popoli nomadi non è solo un modo di accoglienza di un viandante in condizioni di viaggio allora molto difficili, ma è anche e soprattutto un evento religioso. L’arrivo di uno sconosciuto pone il normale svolgimento della vita ordinaria sotto il criterio del dubbio: e se questo sconosciuto fosse un inviato di Dio che viene in incognito? Onorare lo straniero è onorare Dio nel mistero della sua presenza.
Il NT ci presenta Gesù di Nàzaret come un ospite non accolto, uno straniero rifiutato. Solo pochi lo riconobbero come luce di Dio e si lasciarono illuminare, mentre la maggioranza dei suoi contemporanei preferirono la sicurezza della religione tradizionale e non osarono rischiare, restando così nelle tenebre di se stessi. Tutta la vita di Gesù è una parabola di ospitalità ricevuta o negata. Egli non invita mai a pranzo a casa sua non perché non ha una casa, ma perché assume lo stile di un viandante, cioè di un ospite permanente destabilizzante.
L’ospitalità è il nome nuovo dell’amore di quell’amore che rigenera dal profondo perché solo l’amore accogliente della donna peccatrice le permette di ascoltare le parole di vita: «Ti sono rimessi i tuoi peccati». Ciò significa che Gesù non si presenta mai come un ospite qualsiasi: egli è un ospite esigente anche con i suoi amici più prossimi e intimi: ospitarlo significa prestare attenzione alla sua persona e ascolto alla sua parola.
Nessuno può possedere Dio, nessuno può venderlo e può comprarlo perché Dio supera sempre ogni schema: colui che i cieli dei cieli non possono contenere, non può essere rinchiuso in un luogo di culto o in un cuore finito. Dio è sempre oltre i confini dell’esperienza umana perché egli è presenza in questo mondo, ma non è di questo mondo. In questa estraneità che relativizza ogni appropriazione, sono coinvolti anche i discepoli chiamati a imitare il Maestro e Signore.
Amare quelli che ci amano è facile e così fanno anche i pubblicani, il discepolo di Cristo è chiamato a praticare l’ospitalità anche oltre la soglia dell’estraneità culturale ed etica fino alla dimensione dell’essere profondo là dove si sconvolgono le convenzioni e le usanze: il credente ospita anche il suo nemico e prega per i suoi persecutori esattamente come ha fatto il Signore Gesù con i suoi carnefici.
Il Crocifisso è il forestiero per eccellenza che elimina ogni barriera umana attirando tutti nel suo abbraccio di amore redentivo.
L’ospitalità che oggi fa paura e che i cristiani hanno fatto sempre fatica a praticare nella misura voluta da Cristo, è la discriminante tra credente e non credente. I cristiani di tradizione che difendono il «crocifisso» e rifiutano l’ospitalità sono oggi i nuovi crocifissori del Cristo nella carne di coloro che chiedono asilo, mentre quelli che accolgono senza paura gli stranieri sono i veri adoratori di Dio in spirito e verità.
Come possiamo pretendere di essere ospitati in ogni terra e cultura per annunciare il vangelo del Dio vivente di Gesù Cristo come unico Dio se non accogliamo con gioia quanti bussano alla nostra porta per una vita degna dei figli di Dio? L’Eucaristia è la palestra dove esercitiamo il diritto dovere dell’ospitalità reciproca: ognuno di noi è ospite alla mensa della Parola, del Pane e della fraternità in forza della paternità di Dio che ci convoca per restituirci la nostra identità di stranieri e ospiti in cammino verso la Gerusalemme celeste. Nel momento in cui prendiamo coscienza di essere ospiti dell’Eucaristia, noi diventiamo cittadini del mondo e nessuna persona è più estranea alla nostra umanità perché tutti e ciascuno siamo stati annegati e risorti nel sangue salvatore del Figlio di Dio.