23 Nov LECTIO Matteo 25,14-30
La Parola è sempre una grande maestra di sapienza.
Ci prende per mano e ci porta a crescere secondo visioni che inebriano il nostro cuore gli fanno gustare la tenerezza di un Dio che si affida totalmente a me, a te. La prima lezione che il vangelo di Matteo ci offre è come imparare a vivere il tempo.
La tentazione che oscura il cuore e deprime la vita è quella di affogare i nostri desideri e gli amori nel presente come il tutto e spegnere ogni orizzonte di attesa, di futuro.
Il teologo K. Rahner dice: Un «presente senza avvenire» è un non-senso, una specie di condanna a morte. Ogni avvenire lo si sogna sotto la forma di un domani gioioso e lo si prepara anche con tutta la forza del proprio lavoro. Il nostro inseguimento dell’avvenire è, in definitiva, la ricerca di una fine che non sia un semplice termine, ma una meta pienamente raggiunta. In questo orientamento verso l’avvenire si nasconde un desiderio di qualcosa di definitivo, in altre parole di eterno. Questo solo può dare senso e valore ai poveri sforzi della nostra vita e all’amore che la percorre. Nel linguaggio cristiano, tutto questo movimento che porta l’uomo verso l’avvenire si chiama speranza.
Il poeta Luca Sassetti così canta la speranza.
Fragile ala
su mari di melanconia
e deserti di accidia
piccolo seme
unico respiro
sperare.
La chiave della pericope matteana è il dialogo fra il servo malvagio e il padrone.
Da questo dialogo comprendiamo come la parabola diventa una lieta notizia contro la paura, che stravolge il rapporto con Dio e rende sterile la vita.
L’ultimo servo non ha capito che, affidandogli il talento, il suo signore vuole fare di lui un amico; che quel talento è un dono di comunione, un atto di fiducia. Su tutto invece incombe la paura del castigo, e il dono da opportunità si trasforma in incubo.
Il servo ha una sua idea del suo signore, e cioè quella di un uomo duro, che miete dove non ha seminato e raccoglie dove non ha sparso. In una simile concezione di Dio c’è posto soltanto per la scrupolosa osservanza della legge. Il servo non intende correre rischi, e mette al sicuro il denaro, credendosi giusto allorché può ridare al suo signore quanto ha ricevuto.
Gesù invece si muove nella prospettiva dell’amore, che è senza calcoli e senza paura. Anche il servo della parabola deve uscire dall’angusta prospettiva del tanto-quanto.
Il servo non deve porre dei limiti al proprio servizio, perché l’amore non ha limiti e non deve avere paura di correre rischi, perché nell’amore non c’è timore.
La parabola dunque ci fa comprendere LA VERA NATURA DEL RAPPORTO CHE CORRE TRA DIO E L’UOMO. E’ tutto l’opposto di quel timore servile che cerca in Dio rifugio e sicurezza, con una esatta osservanza dei suoi comandamenti. E’ invece un rapporto di amore, dal quale possono scaturire coraggio, generosità e libertà.
nuove prospettive di vita. A coloro che si muovono nell’amore e si assumono il rischio delle decisioni, si aprono possibilità inedite. Chi invece resta inerte e pauroso, diventa sterile, e perderà anche quello che ha (v. 29).
I «talenti», contrariamente a quanto spesso si dice, non sono le doti o le capacità che Dio ha dato a ciascuno. Sono la Parola, i Sacramenti, lo Spirito, la Chiesa, la rivelazione, la vocazione, la fede…Sono le responsabilità che siamo chiamati ad assumere davanti a questo dono di fiducia e di amore.
I primi due servitori sono l’immagine dell’operosità e dell’intraprendenza. Il terzo invece è pigro, passivo: non traffica, non corre rischi, ma si limita a «conservarsi». Il contrasto è dunque fra operosità e pigrizia, tra responsabilità e paura, tra fiducia e calcolo, tra amore e autoconservazione.
Il servo non intende correre rischi, e si crede giusto allorché può ridare al padrone quanto ha ricevuto. Si ritiene sdebitato sterilizzando il dono di amore che ha ricevuto.
Dio invece sorprende i servi: non vuole indietro i talenti affidati, raddoppia la posta, la moltiplica: sei stato fedele nel poco ti darò autorità su molto cioè su tutto. Quel tutto che è Dio stesso, così che, come dice l’Amata all’Amato nel Cantico dei cantici “io sono per te ed tu sei per me”, in una reciproca appartenenza nell’amore.
Non di una restituzione si tratta, ma di un rilancio. Noi non esistiamo per restituire a Dio i suoi doni. Questa immagine, dettata dalla nostra paura, immiserisce Dio. Noi viviamo per essere come lui, a nostra volta donatori: di pace, libertà, giustizia, gioia. Cose di Dio, che diventano seme di altri doni, sorgente di energie, albero che cresce, orizzonte che si dilata, grazia su grazia. Il mondo e la vita ci sono affidati come un dono che deve crescere, un giardino incompiuto che deve fiorire. Una spirale di vita crescente è legge alla creazione. Pena il non senso della vita. Dopo la lunga assenza di Dio, la sua lunga fiducia in noi, il giudizio non sarà sulla quantità del guadagno, ma sulla qualità del servizio; non sul numero, ma sulla verità dei frutti. Non esiste una tirannia della quantità nel regno dei cieli. Devo camminare con fedeltà a me stesso, emozionato e disciplinato servo della vita, vero della verità tracciata in me da Dio.
Siamo tutti invitati da Gesù a cambiare prospettiva. Non più la prospettiva della gretta obbedienza e della paura, ma la prospettiva dell’amore, che è senza calcoli. L’avvenire verso cui si muove la ricerca dell’uomo, il desiderio di qualcosa di definitivo, di eterno, è la libertà che trova il massimo della sua espressione nell’incontro tra l’uomo e il Dio-Amore. Questo solo può dare senso e valore ai poveri sforzi della nostra vita e all’amore che la percorre. Nel linguaggio cristiano, tutto questo movimento che porta l’uomo verso l’avvenire si chiama speranza. La speranza cristiana alimenta la dimensione escatologica della nostra fede senza dimenticare il presente storico.