Guariento Mario | LECTIO Luca 9, 18-24. Domenica XII
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LECTIO Luca 9, 18-24. Domenica XII

17 Giu LECTIO Luca 9, 18-24. Domenica XII

Il testo di Luca è una lezione di vita cristiana autentica fondata sulla preghiera e sulla sequela di Cristo, che per noi dà la vita nella fedeltà all’amore al Padre. Luca ricorda alla comunità cristiana e ad ogni discepolo del Signore che nella vita non si tratta di saper vincere ma di imparare a saper perdere, sopportare, tacere, più che affermarsi e farsi valere.

L’odierno episodio evangelico, conosciuto abitualmente come la «confessione di Cesarea», rappresenta un punto luminoso: iniziando a rivelare il suo mistero, Gesù si avvia verso la croce. Il viaggio verso Gerusalemme, che occupa una parte cospicua del suo Vangelo, ha inizio idealmente da qui: dal primo annuncio della croce.
Gesù sta per offrire ai discepoli la suprema rivelazione: la croce è imminente. Lo fa, emergendo da una preghiera solitaria. Non è marginale il tema della preghiera in questo evangelista che vi dedica passi eccezionali ed alcune parabole (11,5-8; 18,2-8). Tuttavia la preghiera cristiana si incarna per lui nella persona stessa di Gesù, colto frequentemente in atteggiamento assorto e solitario, in dialogo col Padre. Ma i momenti della preghiera di Cristo oltre che di profonda spiritualità sono per lui momenti altamente messianici: i principali gesti di Gesù sono abitualmente preparati dalla sua personale preghiera: così per la consacrazione al battesimo (3,21), per la scelta dei Dodici (6,12), per la cristofania sul monte (9,28-29).
Qui il momento messianico decisivo è l’annuncio della croce, accettabile per Luca solo in un gesto di profonda spiritualità e di dialogo col Padre. Tema ripreso poi con energia all’inizio e al termine del racconto della passione (22,40-46; 23,34).

«Chi sono io secondo la gente?»
Al tempo di Gesù il popolo di Israele, si attendeva un tipo di Messia al quale il comportamento di Gesù non rispondeva davvero. Il Messia avrebbe dovuto essere forte, vittorioso, glorioso.
Gesù rimaneva una delusione; come per il Battista prigioniero che gli manda due discepoli con una domanda inquietante: «Dobbiamo aspettare un altro?» 7,20.
Invece, il messianismo di Gesù — umile, mite, spirituale, paziente con i peccatori, universalisticamente aperto anche ai pagani idolatri, pronto al sacrificio — era quanto di meno accettabile potesse presentarsi a Israele. Gesù prepara gli uomini a un atto di fede sconvolgente, a un abbandono senza condizioni di fronte ai piani di Dio.

«Voi, chi dite che io sia?»
Quante parole su Gesù di Nazaret sono state dette nel corso della storia? Le diverse opinioni di simpatia e di ammirazione non raggiungono la sua identità. Ecco allora la domanda: Voi, chi dite che io sia? Un interrogativo che ci inchioda ad una necessaria risposta, da dare oggi, nel nostro oggi personale e comunitario. «Chi sono io per te?», ci ripete Gesù. Rischieremmo di essere anche noi travolti dal fiume delle opinioni umane su Gesù, se non ricevessimo in dono la risposta dei discepoli, la quale viene da una esperienza di vita con Gesù. Essi erano stati con lui, avevano condiviso le sue parole, gli entusiasmi degli inizi, le ore della preghiera, la diffidenza dei potenti; sorretti da questa vita vicino a lui, dicono per bocca di Pietro: «Tu sei il Cristo di Dio» .

Lo stesso interrogativo fa uscire allo scoperto anche noi discepoli di oggi. Dire a Gesù: «Tu sei il Cristo di Dio» significa oltrepassare la simpatia e l’ammirazione per le parole potenti e riconoscere che noi non bastiamo a noi stessi, che le cose, gli onori, ci possono rendere ciechi e insensibili; vuoi dire, inoltre, che abbiamo bisogno di colui che è il Consacrato di Dio, il «Cristo», per capire in profondità chi siamo e dove andiamo e per colmare davvero le attese del cuore e della vita.
«Tu sei il Cristo di Dio». E la fede a cui la nostra vita si afferra, a cui si orienta il nostro cuore e con cui confrontiamo le scelte quotidiane. Per questo il concilio Vaticano II dice: «La chiesa crede che Cristo, per tutti morto e risorto, dà all’uomo, mediante il suo Spirito, luce e forza perché l’uomo possa rispondere alla sua suprema vocazione; né è dato in terra un altro nome agli uomini in cui possano salvarsi . E crede ugualmente che trova nel suo Signore la chiave, il centro e il fine di tutta la storia umana» (Gaudium et spes, n. 10).

«Pietro rispose: il Cristo di Dio»
Pietro non immagina certo che proprio la croce, grave scandalo per Israele, impedirà di riconoscere in Gesù «il Cristo di Dio»: la ripetizione dell’identica espressione non è casuale. Intanto, come tutti gli altri, Pietro viene sorpreso dalla dolorosa rivelazione di Gesù, senza riuscire a capirla. Eppure sarà proprio l’amara esperienza della croce a maturare in lui il futuro capo della comunità di Gesù, sicuro punto di riferimento per la fede della chiesa. Per lui soprattutto la croce sarà una prova decisiva, nella quale quasi soccomberà; ma, sostenuta dalla preghiera di Gesù, nonostante tutto la sua fede rimarrà, e sarà forza per il piccolo gruppo dei discepoli. Gli dirà Gesù: «Simone, Simone, ecco Satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano. Ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede. E tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli» (22,31-32). Sarà lo sguardo di Gesù, proprio nel corso degli avvenimenti dolorosi, a riconquistare per sempre il discepolo (22, 61-62).
Non è senza motivo che Luca gli dedichi questi passi stupendi del suo Vangelo: nella storia della chiesa primitiva raccontata nel libro degli Atti sarà infatti lui il sostegno della prima comunità, il portavoce di fronte al mondo del messaggio evangelico della croce e della risurrezione. A ragione già qui Luca lo presenta come il portavoce della convinzione dei discepoli: Il Figlio di Dio.

«Il figlio dell’uomo deve soffrire molto»
È il primo dei tre annunci sulla passione che scandiscono il progressivo avvicinamento di Gesù al suo sacrificio. Secondo lui il discepolo deve capire che non solo la croce è necessaria ma che è conforto, salvezza, speranza. Al Cristo in croce i credenti devono volgere lo sguardo con fiduciosa commozione. I discepoli rimangono sconcertati dall’annuncio, perché sentono solo croce e dolore; ma attraverso la croce si prepara la gioia della risurrezione.

«Chi vuole venire dietro a me, prenda la sua croce ogni giorno»
Luca non intende addolcire il messaggio della croce, al contrario. Anche per lui crederci significa molto di più che una semplice adesione mentale; si tratta di accoglierlo nella vita, di accettarlo per se stessi assieme a Gesù. Occorre anzi riconoscere che in questo l’evangelista è particolarmente esigente. La precisazione temporale (cogni giorno», V. 23), presente soltanto in Luca, dice molto sulla continuità della croce nella vita del credente. Il Vangelo chiede molto, la testimonianza a Gesù è crocifiggente: «E necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio» (At 14,22).
La croce è speranza e salvezza, ma occorre viverla con il Signore. E la sola strada che porta alla risurrezione. E poiché la croce di Gesù salva il mondo, partecipando con generosità alle sue prove il discepolo è in qualche modo coinvolto nella redenzione di tutti. La risposta a questa domanda esige la fede, ossia la fiducia profonda e l’abbandono assoluto a colui che affermiamo essere «il Cristo di Dio». Senza questo abbandono fiducioso, ci potrà essere simpatia per Gesù o interesse verso di lui come un grande personaggio storico o un maestro sublime di altissima moralità; ci potrà perfino essere il grande rispetto dovuto ad un martire innocente. Ma chi crede soltanto questo non ha raggiunto il nucleo decisivo della persona di Gesù, non ha compreso che non bastano le parole, ma occorrono anche le opere per proclamare la fede in Gesù inviato divino del Padre. Non basta, cioè, parlare della croce del Messia sofferente che è Gesù, occorre anche prendere tale croce nelle proprie mani.
Ma la forza della fedeltà la possiamo trovare solo nell’amore, un amore così profondo che nulla antepone a Cristo.

 

«Il figlio dell’uomo dovrà soffrire molto»
Egli dovrà essere inghiottito dall’abisso della solitudine e della morte, abbandonato al suo destino proprio da chi lo avrebbe dovuto accogliere. E’ l’annuncio della croce, che qui non è solamente ombra temuta e combattuta, ma la via da percorrere, il punto logico di arrivo di tutta una vita: Gesù deve morire solo e abbandonato.
In tutti i sinottici, la reazione dei discepoli è forte e addirittura indignata: non è possibile, «Questo non ti accadrà mai, Signore» (Mt 16,22). E la reazione di chi pensa che l’Inviato di Dio non può fallire vergognosamente; ma è anche il disgusto profondo della sofferenza e della morte che tutti ci portiamo dentro, Come è possibile vincere perdendo? Come può la croce, di per sé strumento di maledizione, diventare una sconfitta vittoriosa? e cosa ci può essere di logico, di sensato, nella sofferenza? forse che ogni parte di noi stessi non si ribella non solo davanti alla nostra sofferenza, ma anche davanti a quella dei nostri cari, degli amici, degli innocenti e dei bambini? In quel rifiuto istintivo della croce emerge il rifiuto viscerale della sofferenza, che è pure una delle radici più profonde e più tenaci dell’ateismo contemporaneo e che rimane un interrogativo acuto per ogni credente.
«Il Figlio dell’uomo deve soffrire molto’, In quel «deve», detto in modo impersonale, ci sta tutto il misterioso piano divino. E’ il Padre che è presente e sostiene il Figlio in quell’ora» di oscurità e di dolore. E’ il mistero del venerdì santo, quelle tenebre del Calvario in cui sembra che «la luce del mondo» venga spenta e rifiutata completamente. E il mistero d’un nuovo parto divino, in cui l’umanità nuova nasce nel dolore da Dio, nella persona del suo Figlio, in quel dolore salvifico che genera una famiglia nuova.
Nei Padri è diffusa la meditazione sulla croce come nuova creazione, nuovo parto, momento in cui passano le cose vecchie, i veli che si squarciano e nascono quelle nuove. Il soldato squarcia il corpo di Gesù con la lancia e da Cristo nuovo Adamo Rm 5, 13-14; 1Cor 15,45) prorompe sulla terra il fiume della grazia divina, ed escono sangue ed acqua, simboli dei sacramenti (eucaristia e battesimo) della nuova Eva, la chiesa, cioè l’umanità dei riconciliati.
Il piano di Dio, dunque, si realizza nella sofferenza che conduce ad una morte assunta liberamente per amore, e chi crede in essa ed è immerso in questa stessa morte (nella pasqua, nel battesimo, nell’eucaristia) è già umanità nuova. Nella croce Cristo si rivela come l’immagine del Dio invisibile (Col 1,15), come l’uomo capace di amore concreto che può mostrare il volto di Dio che ama. Di fronte alle reazioni umane istintive per l’assurdità e l’inutilità del dolore, la croce è il silenzio con cui Gesù vive il dolore ingiusto, facendone anzi offerta «in favore delle moltitudini’ (Is 53, 11-12; Mt 26,28; Me 14,24; Le 22,20). Gesù ci ricorda che la vita non è solo quella visibile che appare agli occhi della carne, ma è anche segreta, invisibile e soprattutto trascendente. Essa è soprattutto maturazione spirituale, crescita interiore percepibile unicamente alla luce della fede. Non lasciamoci sedurre da falsi messianismi che oggi offuscano le nostre mente e le gettano in preda al guadagno, all’edonismo e alla superficialità. Gesù ci dice non di portare la croce, ma di prenderla, abbracciarla come il seno della nostra gloria, della fedeltà e dell’amore.

Egli rivela, così, un volto «inedito» ma profondamente vero di Dio. Il Padre è il primo ad amare follemente fino al sacrificarsi totalmente in Cristo suo figlio.

Chi segue Gesù, chi vuol davvero riconoscerlo con la vita (e non solo con le parole) come «il Cristo di Dio«, non può evitare la sua via. Ognuno deve prendere questa «croce»; «ogni giorno«, sottolinea Luca, per convincerci ancor più della concretezza dell’insegnamento.
Che significa «prendere la propria croce»?

«Portare la propria croce, è accettare di vivere come Gesù, di seguirlo sulla via dell’umiltà, della mitezza, della semplicità. La croce è soprattutto l’amore donativo assoluto, che accetta anche la morte, il perdere se stessi per amore. Ed è anche quella sofferenza, piccola o grande, che, toccando nel vivo la nostra carne, ci fa capire, talvolta brutalmente, che non siamo noi il centro dell’universo e che noi non siamo onnipotenti. E poi anche quello «smettere di pensare continuamente a noi stessi» («rinnegarsi») e arrivare invece a donare il nostro tempo, a dare una parola, un gesto, una presenza, un sorriso o anche una rinuncia difficile, un impegno per la dignità di qualcuno, una parola di giustizia che ci rivela e ci scomoda, o una fedeltà che ci costa profondamente. «Prendere la propria croce» è per noi, in sintesi, vivere come Gesù; detto con parole di S.Paolo, è «avere in noi gli stessi atteggiamenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,5).