Guariento Mario | DOMENICA 18 MARZO – GV 3,14-22
Tutte le opere, i commenti, le riflessioni di Don Mario Guariento
guarientomario, gauriento, don guariento, guariento mario, mario guariento, liturgia guariento
222
post-template-default,single,single-post,postid-222,single-format-standard,ajax_fade,page_not_loaded,,vertical_menu_enabled,side_area_uncovered_from_content,qode-theme-ver-7.6.1,wpb-js-composer js-comp-ver-5.2.1,vc_responsive
 

DOMENICA 18 MARZO – GV 3,14-22

07 Set DOMENICA 18 MARZO – GV 3,14-22

DOMENICA 18 MARZO – GV 3,14-22

GIOVANNI  cap. 3, 14-22

Il mistero dell’amore folle di Dio

Si parla da una parte di infedeltà, di morte e di distruzione, e dall’altra di fedeltà di Dio, di «Dio ricco di misericordia», del suo amore totale per noi.

La storia di Israele, come del resto la nostra storia, si colora, dunque, di tenebre e di luce, di morte e di vi­ta; ne consegue che tutta l’esistenza è lotta tra luce e tenebre, tra fedeltà e infedeltà, tra morte e vita.

La no­stra vita, personale, comunitaria e universale, è davvero un’avventura; per questo dobbiamo chiedere al Padre dei cieli che la fedeltà prevalga sempre sull’infedeltà, la salvezza sulla condanna e che la luce la spunti sulle tenebre.

Pregare con le parole di Maestro Eckhart: Dammi, Signore, soltanto quello che vuoi tu, e fa quello vuoi e come lo vuoi, in qualsiasi modo.  In”La Nascita eterna”.

Nella misura, infatti, in cui si riceve l’amore di Dio nel segreto dell’anima si diventa amici di Dio. Perciò un tale uomo vive unito a Dio da un desiderio irresistibile, una volta che l’amore divino lo ha strappato a se stesso. DIADOCO DI FOTICA, Cento capitoli gnostici, 14 (SCh 5 bis, p. 91).

Colui che veglia attentamente sul proprio cuore, presto vedrà come il suo cuore, emana luce. Come il fuoco accende  il cero, cosí Dio infiamma il nostro cuore in vista della contemplazione che abita in noi. ESICHIO DI BATOS, Della vigilanza…, 104 (Filocalia, 1, 157).

Per questo i nostri occhi sono su di lui, per fissarlo nel nostro cuore, per non dimenticare mai: perché quella morte del Figlio dell’uomo stia in alto e sia la vera legge della storia dell’uomo, il modello.

Nei vv. 14‑15 Gesù procede alla effettiva risposta alla domanda di Nicodemo, « Come può accadere questo? ».

La generazione per mezzo dello Spirito può avvenire solo come risultato della crocifissione, resurrezione e ascen­sione di Gesù: L’ESSERE INNALZATO.

L’« essere in­nalzato » si riferisce alla morte di Gesù sulla croce. Tutta­via, il verbo hypsoun, « essere innalzato ». è usato in Atti (2,33; 5,31) per accennare all’ascensione di Gesù. In ebraico c’è un duplice uso di nasahinnalzare ») che può comprendere entrambi i significati, di morte e glorifica­zione, come in Gn 40,13 e 19; l’aramaico zeqap significa sia « crocifiggere, appendere » che « innalzare ».

L’influenza principale sui detti giovannei sembra sia il tema del Servo sofferente (Is 52, 13): « Ecco, il mio Servo avrà successo, sarà innalzato (hypsoun) onorato, esaltato grandemente ».

Solo il cuore contrito e umiliato può comprendere allora la profondità del mistero del Crocifisso, mistero di amore senza limiti. Volgendo il suo sguardo a Cristo, l’orante è illuminato dalla rivelazione della croce: amare è essere pronti a donare non il superfluo ma quanto di più prezioso si possiede. Come Dio, appunto, che ha dato il suo Figlio, l’unico, l’amato.

Il versetto 16

Come la morte del Figlio dell’ uomo era  raffigurata in 14‑15 sotto il simbolo vetero‑testamentario del serpente.

Ad Abramo fu comandato di prendere il suo « unico » figlio Isacco, che egli amava, per offrirlo al Signore (Gn 22,2.12); molti esegeti pensano che ci sia questo dietro a: « Dioamò tanto il mondo da dare il Figlio unigenito».

In una frase, formulata in maniera scultorea per tutti i tempi, Giovanni riassume l’intero messaggio cristiano della re­denzione.

Nel vangelo, l’idea dell’amore di Dio che giunge all’estremo deve avere causato anche il cambiamento dell’espressione `Figlio dell’uomo’ in quella di ‘Figlio’: il `Figlio’ è quanto di più caro e prezioso Dio può donare al mondo. Perciò è detto intenzionalmente `egli diede’ édoken  il Figlio suo, `l’unigenito’.

La traduzione abituale ‘consegnò′ pre­suppone parédoken, che nel linguaggio del cristianesimo pri­mitivo esprime la consegna alla croce, probabilmente con una remi­niscenza del Servo di Dio (cfr. Is. 53,6.12).

Dio ha donato al mondo questo suo unico Figlio, a lui strettamente unito ed amato sopra ogni cosa , per strappare il mondo alla rovina.

Adesso è formulato ancora meglio lo scopo dell’atto d’amore di Dio : il possesso della `vita eterna’.

Cristo là ci ha salvati non attraverso il Dio dei miracoli, perché Dio non ha fatto nessun miracolo là sulla croce. Egli è morto. Lo esortavano a salvare se stesso e non si è salvato. Lo esortavano a invocare il Padre perché lo salvasse.., e il Padre non lo ha salvato. Questa è la verità: la salvezza non viene attraverso i miracoli. Siamo eredi di un cristianesimo che sogna i miracoli e si lamenta con Dio quando non li compie. Fissalo il miracolo vero, il vero segno: è questo Signore che sta con le braccia allargate. Questo è il miracolo nuovo. Cristo ha fatto i miracoli sul mare, sui pesci, sui ciechi e sui lebbrosi, ma il miracolo nuovo è questo Dio che non fa un miracolo per sé e rimane con le braccia aperte al Padre e al mondo. Contemplalo il miracolo delle braccia aperte e senti che in questo abbraccio universale ci sei anche tu. Contempla e non dimenticare questa
lezione che il Maestro ti confida dalla Croce; questa cattedra della Croce, così diversa dalle cattedre che tengono le distanze e gelano il cuore. Questa dismisura attrae.

 Il verso 16 rappre­senta uno dei momenti più stimolanti e più intensi del­la cristologia del 4° vangelo e riassume l’intero messaggio cristiano della redenzione.

Si tratta in assoluto del primato dell’amore di Dio, su cui si fonda la speranza cristiana.

L’amore di Dio quando piomba su un uomo, immerge la sua anima nell’estasi. È per questo che il cuore di chi l’ha sentito non può sopportare di esserne privo. Ma l’uomo subisce uno strano cambiamento man mano che l’amore lo invade. Questi sono i segni di tale amore: il cuore vive nella pace, la paura e il pudore lo abbandonano, come se fosse uscito da se stesso. Il suo intelletto è sospeso nella contemplazione. Il suo pensiero è sempre in dialogo con l’Altro. ISACCO DI NINIVE, Discorsi ascetici, 24 (p. 104).

«Fatemi entrare nella stanza del vino» . Perché ne resto fuori per tanto tempo? «Ecco, io sono alla porta e busso: se uno mi apre, entrerò da lui e cenerò con lui, e lui con me».Ancora adesso il Verbo divino dice la medesima cosa : «Fatemi entrare»: che la vostra anima sia piena del vino della gioia, del vino dello Spirito Santo, e cosí fate entrare lo Sposo,il Verbo, la Sapienza, la Verità, nella vostra casa. ORIGENE, Omelie sul Cantico dei Cantici, 2, 7 (SCh 37, p. 92).

La presenza però del «dono di Dio» determina una crisi nella storia degli uomini: tale dono può essere accolto o rifiutato. Siamo di fronte non tanto ad un fatto futuro rimandato alla fine della storia, quanto ad una realtà attuale già presente e operante dentro la storia umana. E’ l’escatologia attualizzata.

Il difficile tema del «giudizio» va letto nelle stesse parole di rivelazione dell’amore di Dio: «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per “giudicare” il mondo, ma perché si salvi per mezzo di lui» (v. 17).

Il «giudizio» sta nella possibilità che il dono di Dio ‑ Cristo ‑ venga accettato o rifiutato. Con il rifiuto o con l’accoglienza di Cristo ‑ dono definitivo del Padre ‑l’uomo costruisce dentro di sé la condanna o la salvez­za, si costituisce tenebra o luce.

Non è Dio, dunque, a condannare l’incredulità colpevole, ma è l’uomo stesso che con la sua incredulità si autocondanna: «Chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio» (v. 18).

L’apostolo Giovanni infatti definisce gli increduli come co­loro che non accettano Cristo e che «amano» le tene­bre (v. 19): il verbo «amare» indica un atteggiamento preferenziale, una scelta consapevole, attaccamento: non si tratta quindi solo di fare il male, ma di amarlo, di farne oggetto di scelta consapevole, di preferirlo.

Se sei diventato il trono di Dio, e tutta la tua anima è divenuta occhio spirituale, se ti sei nutrito del cibo dello Spirito, se hai bevuto l’acqua della vita e indossato i vestimenti della luce indescrivi­bile, se il tuo uomo
interiore è stato confermato nell’esperienza e nella pienezza di tutte queste cose, ecco che vivi in verità la vita eterna.
PSEUDO‑MACARIO, Prima Omelia, 12 (PG 34, 461).

Tuttavia occorre ricordare che l’agire condiziona il comprendere. Libertà interio­re, amore alla verità e alla giustizia sono quindi condi­zioni indispensabili per «vedere»; l’agire corretto non è solo un fatto di coerenza, ma è la condizione necessaria perché il mistero di Dio possa svelarsi in tutta la sua forza.

L’amore: la sua natura è simile a Dio, la sua azione è ebrezza dell’anima; la forza sua è fonte della fede, abisso di pazienza, oceano di umiltà. L’amore, la libertà interiore e l’adozione filiale non si distinguono se non per il nome, come la luce, il fuoco e la fiamma. Se il viso di un essere amato ci rende felici, che mai farà la forza del Signore quando verrà ad abitare in segreto nell’anima purificata?È per questo che l’amore è un progresso eterno. GIOVANNI CLIMACO, Scala del Paradiso, 30° Gradino.

Il giudi­zio, dunque, altro non è che l’oscuro rovescio dell’atto escatologico del­l’amore salvifico di Dio; e l’incredulità, che lo attira su di sè, resta un difficile enigma con il quale l’evangelista si trova sempre a dover contendere (cfr. 3,19 ss.; 5,39‑47; 6,36‑47; 8,23 s‑ 43‑47; 9,39 ss.; 10,25 s.; 13,37‑43; 15,22 ss.).

La volontà di salvezza di Dio e la possi­bilità di salvezza dell’uomo hanno tuttavia chiaramente il sopravvento, e per lo stesso incredulo la porta non è definitivamente chiusa. Di­pende dall’uomo se e per quanto tempo egli stesso resta nella sfera della morte e del giudizio.

Fino all’ultimo il Gesù giovanneo, quan­tunque sia stato fin troppo oggetto d’incredulità, esorta a `credere alla luce’ (12,36).

 

Versetto 19. L’evange­lista torna qui ad occuparsi dell’avvenimento storico e constata che effettivamente gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce.

La `tenebra’ appare come una potenza personificata del male, in contrasto con la `luce’, che è veramente il `Figlio` in persona.

Accettare o rifiutare questa rivelazione dell’amore divino significa per noi vivere nella luce o nelle tene­bre. La decisione spetta a noi, così che il «giudizio» al­tro non è che la nostra volontà a vivere conforme l’amo­re o allontanarsi da esso. Questa decisione coraggiosa, che cambia la vita, comporta lotta e perfino martirio, ma è anche grazia che viene dall’alto e, come tale, ha bisogno della preghiera per essere accolta e vissuta con perseveranza.

0 Signore, che sei la luce per la quale la luce fu fatta,

che sei la via, la verità e la vita,

in cui non sono tenebre né errore né vanità né morte,

luce senza la quale non vi sono che tenebre,

via fuori della quale non vi è che errore,

verità senza la quale non vi è che vanità,

vita senza la quale non vi è che morte:

di’ una parola,

di’, o Signore, «sia fatta la luce», perché io veda la luce ed eviti le tenebre,

veda la via ed eviti ogni deviazione,

veda la verità ed eviti la vanità,

veda la vita ed eviti la morte.

Illuminami, Signore,

mia luce, mio splendore e salvezza. Illumina, o luce, questo tuo cieco

che siede nelle tenebre e nell’ombra di morte, e dirigi i suoi passi sulla via della pace,

per la quale entrerò nel tabernacolo ammirabile fino alla casa del Signore

con canti di esultanza e di lode.

S. AGOSTINO, Soliloqui,  4

 

Versetto 21. Ma l’evangelista non si ferma a questo quadro tenebroso, sullo sfondo oscuro viene sovrapposto il chiaro dise­gno del comportamento contrario. `Chi fa la verità‘viene alla luce, ‘espressione, che descrive l’operare moralmente buono e gradito a Dio, è semitica e ricorre spesso negli scritti di Qumran .

`Verità‘ è sinonimo di ciò che appartiene a Dio. Chi vive in comunione con Dio e cerca di compiere la sua volontà è anche nella disposizione di udire ed accogliere la parola di colui che è inviato da Dio, che è la Sapienza.

L’uomo amico di Dio si sente attratto verso la `luce’, affinché le sue opere divengano manifeste. Giovanni vuole così mostrare l’intimo rapporto tra `fare la verità‘ e `venire alla luce’.

Davanti alla `luce’, alla Sapienza, alla Parola deve apparire visibile che le opere sono `vere’, sono secondo il cuore di Dio. Teologicamente con ciò si vuol dire che esiste una pa­rentela tra i `figli di Dio’ (cfr. 11,52) ed il Figlio di Dio inviato per la rivelazione e la salvezza, ed un intimo rapporto tra comportamento morale e fede.